«Laury ti prego non piangere, non è il momento!»
Nora fa del suo meglio per calmare la piccola, ma non è facile: questa famiglia ha vissuto troppi traumi per restare serena in un momento del genere. Sono venuti per me? Se così fosse, non me lo perdonerei mai. Queste persone non meritano altre sofferenze.
«Andrà tutto bene, vero?» mi chiede Desiderio, il più piccolo della cucciolata di Scimus e Mà.
«Certo che sì», gli rispondo accarezzandogli la testa. «E poi tu sei quello coraggioso, no?»
Lui annuisce convintamente. «Se dovessero salire, ti proteggerò io!» Aggiunge con un'espressione seria.
Gli sorrido. «Ti ringrazio, ma vedrai... non servirà.»
In quel momento un sonoro rumore di passi rompe il silenzio, facendoci sobbalzare tutti. «Sono io!» mormora Eliane. Patty apre alla figlia, che entra trafelata insieme a Gertie. «Non sono riuscita a trovare gli altri... non so dove sono!»
«Non preoccuparti», la rassicura Patty, che poi si volta a guardare me: mancano ancora Ruben, Last e Freya.
«Dovrebbero essere con Arken... credo», ipotizza Nora. «Volevano fare ancora quella cosa dei fantocci». Me lo auguro... Ark è in gamba, dovrebbe sapere cosa fare in questi casi. Ma se così fosse, come mai non sono tornati qui?
La nostra tensione viene spezzata all'improvviso da un grido di dolore proveniente dal piano terra: Gertie si tappa le orecchie, Laury singhiozza, Eliane e Patty si portano una mano alla bocca. Il grido è presto seguito da uno schianto: legno spezzato, forse la porta.
«Si può sapere che problemi avete?»
«Se vi sedete e ci ascoltate con calma, non vi succederà nulla!»
«Non siete soldati! Non avete nessun diritto di...»
Frammenti di frasi provenienti dal piano di sotto si accavallano l'un l'altro, sovrastati dai deboli singhiozzi di Laury. «Oh Dei!» mormora Patty, abbozzando una preghiera.
Rifletto sul da farsi. Restare qui non serve a nulla: o vado a cercare Freya o scendo a dare una mano come posso. Già, ma come posso? Non sono certo una tipa da attacco frontale: se volano due schiaffi ne prendo tre. Quanto a Freya, potrebbe essere ovunque.... Magari al sicuro, visto che il grosso di questi manigoldi sta qui. No, decisamente meglio scendere di sotto.
«Cosa vuoi fare?» Mi chiede Patty non appena si accorge delle mie intenzioni.
«Non lo so neppure io» le rispondo, scuotendo la testa: «ma non posso starmene qui a non fare niente: vedo se riesco a dare una mano a Karel e agli altri».
Patty scuote la testa: «lascia fare a loro, è meglio: qui sei più al sicuro».
«Il fatto è che... esiste la possibilità che io conosca queste persone: potrebbero essere venuti per me».
La donna mi osserva: conosce la storia. «E anche in quel caso è meglio se non ti vedono, no?»
«Sei gentile a dire così: ma se stanno cercando me, un piano e quella porta non faranno la differenza. La sfonderanno e mi vedranno comunque, e a quel punto potrebbero pensare di punirvi perché mi avete nascosta. Credimi, è meglio così».
«Vengo con te», esclama Desiderio. «Ti guardo le spalle». In una mano stringe il suo cero, nell'altra il piccolo coltellino con cui era intento a intagliarlo fino a poco fa. Stamattina mi ha confidato che stanotte avrebbe voluto accenderlo e custodirlo insieme a me.
«Grazie, ma non è possibile», gli dico con tono dolce ma fermo. «E' una cosa che devo fare da sola. E poi tu devi custodire il nostro cero, no? Stanotte lo dobbiamo accendere, non ricordi?»
«Davvero? Me lo prometti?»
«Certo che si: te lo prometto».
Varco la porta, che subito Patty richiude alle mie spalle. E' robusta e pesante, ma non fermerà quei balordi quando e se decideranno di salire. Mentre scendo le scale, ripenso a ciò che Vodan mi ha spiegato sul ruolo di Kalina la Divina e delle sue compagne alle Case della Gioia. Soldatesse che combattono con armi diverse dalle mie, così le ha definite. Detta così suona male, ma quando mi ha raccontato della scelta coraggiosa di Giada e del ruolo giocato da quella sirena ho compreso il reale significato di quelle parole. Devo ispirarmi a lei, in questo momento difficile: devo fare ciò che è necessario per risolvere questa crisi.
Questa è la risoluzione con cui scendo le scale, subito smorzata dal tetro spettacolo che si palesa ai miei occhi. I soldati hanno varcato l'ingresso, sfondato la porta e raggiunto la sala da pranzo: tre di loro hanno sguainato le armi, rivolgendole contro Karel, Gomar, Scimus e Mà, anch'essi armati; un altro si volta verso di me. Un altro ancora, presumibilmente il capo, brandisce dei fogliacci luridi su cui qualcuno avrà certamente scritto che questi maramaldi hanno il permesso speciale di fare tutto ciò che pare a loro. Come sempre. Trent aveva detto che erano sette, ma ne vedo soltanto cinque: forse gli ultimi due sono rimasti fuori?
Il mio arrivo desta un certo interesse. Cosa farebbe Giada? Il capo mi squadra dall'alto verso il basso, le dita che tamburellano sull'ascia da lancio assicurata alla cintura. E' con lui che devo parlare, da pari a pari e fissandolo negli occhi, ignorando gli inopportuni apprezzamenti della soldataglia.
«Buonasera», mi saluta accennando un inchino: «stavamo giusto facendo le presentazioni».
«Di grazia, potrei sapere cosa volete? Ci stavamo preparando a festeggiare Ostàra».
«Siamo venuti a proporre un accordo vantaggioso», risponde quello, agitando i fogliacci. «Tutto regolare, ovviamente. Garantito dalla Rocca».
«Ovviamente».
Stanno cercando qualcuno, è evidente. Qualcuno che probabilmente non hanno mai visto in faccia. Se è gente mandata da qualche parente di Emon Creedon, potrebbero avere delle descrizioni...
«Non è vero», ribatte Karel: «Non è quello che hanno detto poco fa. Vogliono portare via i marmocchi». I marmocchi? In che senso?
«Beh, si», risponde il capo, sollevando le spalle. «Del resto è proprio di questo che parla l'accordo. Tuttavia, anche scambiare due parole con una bella ragazza non ci fa mica schifo...»
«Andatevene», ringhia Scimus, digrignando i denti e brandendo la sua cucchiara - una grossa pala da neve - verso il soldato più vicino. «Andatevene ora, finché potete farlo: qui non c'è niente per voi». Quello, per tutta risposta, solleva un batocchio di legno non meno lungo e pesante della rancogna di Mà.
Capisco in fretta che il compito di Giada e Kalina in questi frangenti, ovvero il mio compito ora, è impedire alla situazione di degenerare.
«Perché invece non mettiamo via le armi e ci sediamo?» Così dicendo mi avvicino al tavolo. «Sono certa che potremmo raggiungere un accordo, magari diverso, ma comunque... soddisfacente».
Guardo il capo negli occhi, quindi abbasso lentamente lo sguardo. Il pavimento è ingombro dei resti dei ceri, caduti a terra e in gran parte spezzati. Aspetto che si avvicini, cosa che puntualmente accade. Mi scruta, quindi mi prende il mento tra le mani, sollevandomi il volto verso la luce delle torce che scoppiettano nel silenzio della stanza.
«Come ti chiami?»
«Saga», gli dico. E' il momento della verità: se sono venuti per me lo saprò adesso, guardandolo negli occhi. Con stupore, realizzo che non è affatto così. Non è gente dei Creedon. Non stanno cercando noi.
«E dimmi, Saga», continua lui, con voce suadente. «Quanti anni hai?»
«Ventidue».
Annuisce con un sorriso compiaciuto. Fatti coraggio, Saga: è il tuo momento. Se giochi bene le tue carte, puoi sperare di accontentarlo da sola e mandarlo via con poco. Del resto è questo che sei diventata, no? Un pugno di mesi di pace e illusioni non possono cambiare il destino a cui questo feudo maledetto ti ha condannata.
«E allora...» mormora lentamente, avvicinandosi con la bocca al mio orecchio e abbassando la voce fino a renderla quasi un sussurro.
«.... e allora non servi a un cazzo».
Il guanto ferrato dell'armatura mi colpisce in pieno volto, lacerandomi la guancia e iniettandomi il naso di sangue. Precipito su una sedia, che si rompe sotto di me riempiendomi le mani e i fianchi di schegge affilate. Non sento il rumore del mio corpo che cade, nelle orecchie c'è solo un fischio assordante che mi arriva fin dentro al cervello. Il capo mi assesta due calci in rapida successione, quindi mi sputa addosso. «Troia che non sei altro! Pensavi di fottermi, eh? Che cosa avevi intenzione di fare?». Mi raggomitolo a terra, cercando di proteggermi la testa dall'assurda reprimenda di questo pazzo violento. Dove ho sbagliato?
Il fallimento del mio tentativo di mediazione provoca conseguenze opposte a quelle che erano le mie intenzioni: la situazione degenera. Mà brandisce la rancogna e si avventa su uno dei soldati, gridando qualcosa che non comprendo. Scimus mi si piazza davanti, mulinando la cucchiara e costringendo il capo a fare due passi indietro. Goran blocca un fendente al corpo e risponde con una gomitata all'indirizzo di uno dei soldati, mentre Karel viene colpito alla spalla dall'altro, per fortuna - credo - in modo non grave.
«Fatevi sotto, vigliacchi!», urla il capofamiglia alla marmaglia di balordi. «Ben detto!» Gli fa subito eco Scimus: «Facciamo vedere a questi bastardi che sono venuti a mungere la vacca sbagliata!».
Provo a rialzarmi, puntellandomi sugli avambracci sanguinanti: devo aiutarli, devo fare la mia parte. Raggiungo una credenza, mi sollevo, torno in piedi, spreco istanti preziosi alla disperata ricerca di qualcosa da afferrare: una scopa di saggina, un vaso, una padella per le castagne. Sono lenta. Nel momento in cui riesco finalmente a girarmi, il manico della padella stretto tra le mani tremanti, Scimus stramazza al suolo, colpito al volto da un fendente. Un istante dopo è la volta di Karel, raggiunto alla schiena da un secondo colpo di mazza drammaticamente più energico del primo. Goran e Mà sono ancora in piedi, ma a breve si ritroveranno con due avversari a testa.
«Io aspetterei settembre, per quella» mi schernisce il capo, ruotando la spada nella mia direzione. «Ma se proprio hai fretta di usarla...»
Quello che accade dopo è fin troppo scontato. Mi avvento su di lui agitando la padella, consapevole di non avere alcuna speranza, e così è. Un taglio sul dorso della mano mi costringe ad abbandonare la presa, un calcio ben assestato mi spedisce nuovamente con la faccia sul pavimento.
Agli altri non va molto meglio: la rancogna morde l'aria un paio di volte, quindi finisce anch'essa a terra, ben presto seguita da Goran e Mà. Abbiamo perso. E adesso?
Il capo mi posa la punta dello stivale sulla spalla, poi comincia a spingere, sempre più forte, osservando con un ghigno sadico la mia smorfia di dolore crescente. Non è venuto per me ma in compenso mi odia più di chiunque altro. Deve avere il dente avvelenato contro le donne: non lo manderà Creedon, ma lo ricorda parecchio. Anche io ti disprezzo, sai? Anche a me fanno schifo quelli come te. Non sei che l'ennesimo spaporchio molesto, egoista e violento, condannato ad essere respinto per tutta la vita. Stringo i denti, cercando di resistere per non dargli soddisfazione, ma non è umanamente possibile. Il suo piede accompagna la mia articolazione in una torsione innaturale, costringendola prima a tendersi, poi a piegarsi fino a raggiungere il limite, e infine, inevitabilmente, a dislocarsi con un rumore sordo. La mia bocca si contorce in un grido strozzato. Il dolore è atroce, ma riesco a non perdere i sensi. Non ancora.
«Salite a prendere il resto di questi pezzenti», lo sento ordinare a due dei suoi sgherri. «Voialtri, disarmateli e teneteli d'occhio».
Con la coda dell'occhio li osservo mentre salgono le scale. Ripenso alle parole di Karel: Vogliono prendere i marmocchi. Possibile? Perché? A cosa gli servono? Sia come sia, spero che Freya, Ruben e gli altri siano riusciti a scappare lontano.
Vodan... dove diavolo sei? Abbiamo bisogno di te! Avevi promesso...
«Come va il ginocchio?»
«Migliora a vista d'occhio», rispondo a Last con un sussurro, mentre continuo a scrutare i dintorni. Dove si sarà cacciato il nostro inseguitore?
«Credo che abbia smesso di seguirci: magari è andato dietro ad Arken e Freya».
Mi auguro di cuore che non sia così. Più riusciamo a tenere l'attenzione di quel soldato rivolta verso di noi, più loro avranno il tempo di raggiungere il boschetto e mettersi al sicuro.
«Eccolo», mormora Last all'improvviso: «Laggiù, vicino al semenzaio!»
Perfetto, penso mentre raccolgo una pietra tra le mani. Mentre mi accingo a tirarla, ripenso alle innumerevoli volte che abbiamo giocato a nascondino in questo labirinto di alberi e arbusti che circondano casa nostra. Io, Freya e Arken eravamo i più bravi. L'unica differenza è che stavolta dobbiamo vedercela con un adulto. L'unica differenza è che stavolta non è un gioco. Beh, vediamo come se la cava questo finto soldato. Lancio il sasso, che compie una lenta parabola nella sua direzione, quindi mi accovaccio tra i cespugli.
Thud!
«Lo hai mancato!», bisbiglia Last.
«Idiota, non miravo a lui: preparati a correre appena si sposta». Last non ha mai imparato le tattiche basilari del nascondino... per questo finisce sempre a contare.
Prevedibilmente, il rumore attira l'attenzione dello scagnozzo: quando si volta, dandoci le spalle e facendo un paio di passi nella direzione che speravo, scatto in piedi e comincio a correre. Il ginocchio abbaia ancora, ma non morde più. Last mi segue come un'ombra: insieme risaliamo furtivamente il sentiero, tenendoci bassi e sfruttando la copertura della fitta siepe di alloro che costituisce il vanto di zio Scimus. Il nostro inseguitore si accorge della manovra e si mette a inseguirci, ma nel punto dove decide di tagliare non c'è un sentiero e ben presto l'erba alta lo costringe a rallentare. Ricordo quando Hart mise il piede dentro un nido di serpenti proprio da quelle parti e mi auguro che al nostro inseguitore succeda la stessa cosa, magari anche peggio. Lo sento bestemmiare: ha capito che adesso dovrà tornare indietro e fare il giro lungo. Bene così.
«Ahah, hai sentito? Ha detto porco p...»
«Ho sentito: non ti distrarre, resta concentrato».
Risaliamo verso casa, approfittando del vantaggio di tempo che ci siamo guadagnati. Il sentiero si apre, regalandoci uno scorcio sul vialetto che porta all'ingresso di casa nostra. I cavalli dei finti soldati, malmessi e denutriti, pascolano davanti alla porta, addentando con scarsa convinzione le primule di zia Mà.
«Hai visto?» esclama Last, puntando il dito poco più indietro: «hanno anche un carretto».
«Già. Mi chiedo cosa se ne facciano, visto che è vuoto». Il sospetto è che siano venuti per riempirlo con la roba nostra. Ci avviciniamo con cautela, fino a sentire stralci della discussione che sta avendo luogo all'interno: a quanto pare non mi sbagliavo, questi cercano qualcosa... O peggio, qualcuno. Devo portare via Saga.
«Aspettami qui», dico a Last: «io cerco di entrare dal retro».
«Va bene, ma... cosa devo fare se torna il soldato?»
«A quel punto mi fai un segnale... il fischio da pastore, d'accordo?». Il fischio da pastore è la specialità di Last, quando lo fa si sente fino a Uryen. «E poi corri da Oger Esmor come se avessi il pepe al c...» La frase mi muore in gola, mentre il mio sguardo si leva verso l'abitato di Esmor e incontra la grande colonna di fumo che si perde nelle ombre della sera ormai incombente. Sotto di lei, bagliori giallastri che non promettono niente di buono.
«Oh cazzo», mormora Last. «Ma che, hanno già acceso i pupazzi?»
Scuoto la testa. Magari, Last. Non è certo paglia, quella che sta bruciando. «... E poi corri verso il boschetto, d'accordo? Così ci incontriamo tutti quanti lì».
«D'accordo. Ma non tirarmi il pacco, eh? Non fare che poi non venite». Lo sento stringermi il braccio, forte. Anche lui adesso ha paura. Come me.
«Tranquillo: te lo prometto».
Di lì a poco raggiungo la porta sul retro: chiusa. Anche le finestre sono sbarrate. Sollevo gli occhi alla ricerca di un'apertura verso cui potermi arrampicare e vedo Eliane che mi guarda dall'alto.
«S-C-A-P-P-A», mi comunica senza emettere un fiato, enfatizzando i movimenti delle labbra: quindi indica in basso, appena dietro di me. Mi volto giusto in tempo per intravedere la sagoma dell'ennesimo soldato, che proprio in quel momento fa capolino dall'angolo opposto della casa.
«Hey, tu: fermo lì!»
Fossi matto. Scatto a correre a perdifiato nella direzione opposta, ignorando i guaiti lamentosi del ginocchio, mentre quello si getta all'inseguimento. Che faccio? Dove vado? L'impulso è quello di dirigermi verso il boschetto, ma prima devo trovare il modo di avvertire Saga. Viro dunque in direzione del frutteto, con l'idea di seminare anche questo inseguitore e poi, magari, tornare sul retro e cercare di contattarla tramite Eliane. Posso farcela. Mi sento come i protagonisti della storia che ci raccontava nonna Laurel, in cui una banda di ragazzini - i "marmocchi", come li chiamava lei - riusciva a mettere sempre nel sacco i soldati della Signoria. Tra un attimo raggiungerò il frutteto. Posso farcela. Non sento più i passi del mio inseguitore, forse ha mollato... ma non posso voltarmi, se mi voltassi perderei velocità e non è una buona idea. Posso farcela.
Poi sento un rumore strano e perdo contatto con il terreno. Rotolo a terra, senza capire cosa sia successo. Un'altra radice? Provo a rialzarmi e a quel punto sento il polpaccio che comincia a urlare a squarciagola, ma una roba che al confronto il ginocchio era muto. Un dolore assurdo, più forte della puntura di un calabrone. Mi tocco la gamba e sento che è bagnata, poi mi guardo le le mani e le vedo rosse. Ma come...
«Dove pensavi di andare, moccioso?» Il bastardo si avvicina a grandi falcate, stringendo in mano quello che sulle prime mi sembra un ramo. No, non è un ramo... è un arco. Abbasso gli occhi sulla mia gamba sinistra, che proprio non vuole saperne di muoversi, e vedo il piccolo pennacchio di piume grigie che spunta dal terreno a circa un metro da me. Pensa se mi prendeva in pieno.
«Ecco, lo vedi cosa mi costringi a fare? Voi mocciosi la dovete piantare di scappare! Non vi hanno insegnato che dovete ubbidire agli adulti, da queste parti?»
Da queste parti. Questi tizi non sono di Dossler, e forse neppure dell'Anterlig. Da dove vengono, allora? E cosa vogliono da noi?
«Avanti, alzati!»
Scuoto la testa. E poi, anche se volessi, la gamba mi fa un male d'inferno.
«Non fare la femminuccia», insiste quello, allungando una mano con l'intenzione di tirarmi su. «Altrimenti mi toccherà fart...»
La frase gli muore in gola, mentre un altro pennacchio di piume - stavolta di colore azzurro - affiora lungo la trachea, appena sopra al bavero dell'armatura.
«Non provare a toccarlo, bastardo!»
Astea? E' la voce di Astea! La vedo emergere lentamente dal frutteto, tra le ombre della sera e la foschia indotta dai rinnovati spasmi della gamba, mentre incocca un'altra freccia. Ma non è necessario: il finto soldato si porta le mani al collo, cercando invano di afferrare l'aria che non ha più modo di inspirare, quindi crolla al suolo in attesa che la vita lo abbandoni. Un colpo perfetto.
«Uno in meno», commenta lei, senza scomporsi. «Come stai?», mi chiede poi, guardandomi la gamba.
«Mi ha preso di striscio... me la caverò».
«Ce la fai a camminare?»
«Si, ma... perché? Cosa vuoi fare?»
«Che domande», risponde lei, brandendo l'arco e indicando la daga che porta alla cintola. «Ammazzarli tutti».
«Sei matta? Non ce la farai mai: sono in sett...» Poi metto a fuoco il corpo esanime riverso davanti a noi. «... ok, sono in sei. Ma sono comunque troppi, per te da sola».
Le mie parole smorzano la sua risolutezza. Riflette. «Hai ragione», conclude poi con un sospiro. «Dobbiamo cercare aiuto. Forse dagli Esmor?»
«Non penso sia una buona idea: mi sa che ci sono già passati. Io e Last abbiamo visto una colonna di fumo...»
«Capisco. Vorrà dire che cercheremo altrove: aspettami qui, torno subito».
Resto solo col morto, guardandola sparire tra i peschi in fiore con la grazia di una nereide delle lande. Mia sorella mi ha appena salvato la vita. E' molto meglio dei protagonisti delle storie di nonna Laurel. Come ha fatto a diventare così forte e coraggiosa? Mi avvicino al cadavedere. Siamo sicuri che sia morto, si? La pozza di sangue in cui è riverso non sembra lasciare adito a dubbi. Oltre a un arco aveva anche una daga, simile a quella di Astea. La sfilo con cautela dal fodero, cercando di non tagliarmi. Da oggi, questa sarà la mia arma.
«Attento a non tagliarti», mi avverte, mentre riemerge dal frutteto in groppa a Jofnar, il suo cavallo: «quella fa male».
«Lo so: adesso è mia».
«Sta bene, puoi prenderla: adesso però salta su. Vediamo se riusciamo raggiungere qualche soldato di Uryen... quelli veri, intendo».
Saltare non è esattamente facile, considerando la condizione delle mie gambe, ma in un modo o nell'altro riesco a issarmi su Jofnar. Certo che è davvero enorme, oltre che bellissimo. Io e Laury le avremo chiesto almeno cento volte come è riuscita ad averlo: il duello rituale, la trattativa, il vestito da principessa. Per questo gli ha dato quel nome particolare: nella lingua dei Nordri significa principe.
«Sei pronto?»
Annuisco. In men che non si dica siamo lanciati al galoppo, in direzione della torre Nove.
«Astea?»
«Dimmi».
«Finirà tutto bene, vero?»
«Ma certo. Andrà tutto bene, vedrai: dobbiamo solo trovare Ivan Reiner, o John Striker, o Kelly... o Vodan».
«Me lo prometti?»
«Te lo prometto».
«Vi prego, non fatelo... possiamo pagare». Vorrei poter fare qualcosa in più che pregare questi figli di puttana, ma la realtà è che ci hanno conciati per le feste. Le armi devi saperle usare, diceva sempre il mio buon amico Stern Rock, altrimenti è meglio non averle. Aveva ragione lui... alla fine abbiamo soltanto fatto una figura di merda. Persino Gomar, che un pò di Rocca l'ha fatta, non è riuscito a combinare molto.
«Non rompere i coglioni, vecchio», mi risponde il loro capo, che gli altri chiamano Grom. «Potevi pagare prima, quando ti abbiamo dato la possibilità: hai voluto alzare la cresta, ed ecco il risultato».
«Abbiamo amici nell'esercito», insisto: «abbiamo sempre fatto il nostro dovere. Ci deve pur essere qualcosa che possiamo...»
La voce mi muore nel petto, quando vedo uno dei soldati che trascina sulle scale il corpo esanime di mia moglie.
«Nora! NORA!»
«Tranquillo, oh... Mica è morta! Le ho dato solo una mazzata in testa, ma si riprenderà... credo».
«Perché? PERCHE'? Maledetti... maledetti assassini». Mi trascino in direzione delle scale fino a raggiungere il punto in cui si trovano Saga e Scimus: entrambi vivi, benché ridotti all'impotenza come noi.
«Hai capito, Grom? Questo pensa che siamo degli assassini».
«Tocca spiegarglielo, che non è morto nessuno...».
«... per ora».
«Esatto. Per ora. O, per meglio dire, non ancora».
«Ancora per poco, però... Se continuano a fare gli stronzi a 'sta maniera!».
«Già», conclude Grom, interrompendo il siparietto imbastito dai suoi sodali. «Per questo è il caso che ci diamo tutti una calmata. D'accordo?»
Annuisco, come se non avessi capito che ci sta soltanto prendendo per il culo. Ci siamo sforzati di restare calmi, persino quando ci hanno fatto capire cosa volevano. Hanno iniziato loro a colpirci, quando Saga ha provato a... mediare... nell'unico modo possibile... E guarda come l'hanno ridotta. Bestie, questo sono: alla stregua dei Nordri, forse addirittura peggio. Ma adesso non posso fare altro che assecondarli. Mi sforzo di guardare l'unico lato positivo: quel bastardo ha ragione, non è ancora morto nessuno. E il mio compito è mantenere tutti in vita, costi quel che costi.
Grom si siede sulla mia poltrona, quindi mi indica l'unica sedia ad essere rimasta in piedi. «Siediti, Karel. Ti chiami Karel, giusto?»
Annuisco ancora. Raggiungo la sedia e mi tiro su. Grom è l'unico con un'arma e un'armatura decenti, gli altri hanno tutti mazze, bastoni e pezzi di cuoio male assortiti. Eppure non si comportano come dei semplici banditi. Mercenari in disgrazia? Disertori?
«Posso vedere quelle carte?» Chiedo educatamente, sforzandomi di contenere la rabbia.
«Oooh, così mi piaci, Karel» risponde Grom con soddisfazione. «Guardiamo cosa dicono le carte».
Ciò che leggo ha dell'incredibile. Niente di quanto c'è scritto ha la minima possibilità di essere vero. Dai nove ai quattordici... Ma che senso ha?
Guardo Grom negli occhi, scuotendo la testa. «Conosco bene i soldati della Rocca: non autorizzerebbero mai una cosa del genere. Il comandante Barun...»
«Il "comandante" Barun è un disertore e non comanda più nulla da settimane», si affretta a precisare Grom, come se ripetesse una filastrocca imparata a memoria: «adesso al comando c'è Sir Gadman Scherer. Lo sanno anche i sassi...».
Lo so bene anch'io: l'ho detto apposta per vedere se lo sapeva lui, e a quanto pare è così. Questo significa che la storiella dell'acquisto di bambini non se la sono inventata loro di sana pianta. E chi, allora? Possibile che davvero...
«A quanto pare non conosci così bene i soldati della Rocca. Scommetto che non conosci neppure l'Asilo...».
«Qui c'è scritto VOLONTARIAMENTE» lo interrompo, puntando il dito su uno dei fogli. «... che accetteranno SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE di...».
«Ma certo! SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE, s'intende. E infatti noi siamo proprio qui per convincervi che è la scelta migliore che potete fare. Chi può convincerli ad andare meglio dei loro genitori? E i soldi saranno divisi equamente: metà a loro, che vi daremo adesso, metà a noi che vi abbiamo fornito questa opportunità, e siamo tutti contenti. Nessuno muore, nessuno si fa male... L'accordo perfetto».
«Spiacente, non venderemo i nostri figli alla Rocca di Tramontana. Vi ringraziamo per l'offerta, ma preferiamo rispettosamente declinare». Come se ne avessimo realmente facoltà. Ma ormai non resta che continuare a tenere in piedi questa stupida recita, nell'attesa che questo bastardo si decida a dirmi cosa intende fare.
«Davvero? Che peccato». Grom si alza, scrollando le spalle con l'aria sconsolata di un mercante non è riuscito a concludere un buon affare. «Beh, ragazzi, avete sentito il capofamiglia: purtroppo non se ne fa niente». E così dicendo si dirige verso la porta, facendo cenno a tutti di levare le tende.
«Che peccato!»
«Oh no! Questa non ci voleva.»
«Davvero una disdetta!»
«Eravamo a tanto così dal chiuderla, e invece...»
Non so se mi sta più sui coglioni Grom o il teatrino di guitti che gli tiene il gioco. Gomar mi osserva. Gli faccio capire di tenersi pronto, tra pochi istanti questo farabutto smetterà di fare lo scemo e saremo chiamati a giocarci il tutto per tutto.
«Aspetta un momento», esclama Grom, un attimo prima di varcare la porta ormai scardinata. «Perché non chiediamo direttamente ai ragazzi?»
«Buona idea!»
«Perché no?»
«Mi sembra il modo migliore per cavarsi da questo impaccio.»
«D'altronde non sta mica bene che decidano i genitori per il loro avvenire...»
A un cenno di Grom, i miei familiari - Patty, Eliane, Gertie, Desiderio e la piccola Laury - vengono condotti giu dalle scale e messi in fila indiana di fronte al tavolo, che viene rimesso in piedi. Nora, ancora svenuta, viene adagiata sulla mia poltrona, mentre Grom rimane in piedi. Scimus, Saga e Mà restano riversi a terra.
«Eccoci qua», esordisce Grom. «Adesso faremo un gioco, vi spiego come funziona. Prima di tutto vi dividerete in due gruppi: quelli che non hanno ancora compiuto quindici anni possono restare qui, davanti a questo tavolo: gli altri andranno a mettersi lì, di fianco alla poltrona in cui riposa la signora. Forza, da bravi».
Desiderio e Laury sono gli unici a restare vicino al tavolo, gli altri raggiungono lentamente Nora. Tutti hanno capito che, almeno per il momento, devono ubbidire senza fiatare.
«Molto bene», riprende Grom rivolgendosi ai due rimasti di fronte a lui. «Adesso vi darò la possibilità di scegliere tra due possibili opzioni: una vi consentirà di guadagnare un bel gruzzoletto e diventare degli eroi, salvando la vita non soltanto alla vostra famiglia ma anche a tutti gli abitanti della Signoria, e forse, chissà, persino a quelli di tutta la Contea! L'altra, beh...» conclude, guardando in direzione di Nora e degli altri, «...l'altra, no».
Scende il silenzio. Laury tira su col naso, sforzandosi di non piangere. Guardo Grom, che attende con ansia una risposta. Ho capito cosa vuoi fare, spregevole carogna, ma non funzionerà: non riuscirai a portarceli via, neanche col ricatto. Non te lo permetteremo mai, neanche se dovessi ammazzarci tutt..
«Capo, abbiamo un problema!» La voce arriva da fuori, dev'essere uno dei due scagnozzi che erano rimasti fuori. Sentiamo i passi pesanti che si avvicinano, quindi lo vediamo attraversare la cornice della porta. Non è solo, purtroppo.
«Last!» Grida Mà, con la voce rotta dal dolore. «No, vi prego! Lui no! E' piccolo, ha bisogno di me!»
«Piccolo? A me pare anche più grandicello degli altri», commenta Grom grattandosi il mento. «Quanti anni hai, Last?» Non dirglielo! Menti!
«Quattordici e mezzo». Cazzo.
«Perfetto! Accomodati pure lì, insieme agli altri due... Stavamo giusto facendo un gioco». Mentre Last raggiunge Desiderio e Laury, Grom guarda il suo compare con aria interrogativa: «Beh? Qual è il problema?»
«Bernie è morto».
«Morto? Che dici?»
«Si, morto. Colpito da una freccia, al collo». Si porta la mano sotto al mento, indicandosi il pomo d'adamo. «Proprio qui».
Il resoconto prosegue, con Grom che incalza il suo sgherro con crescente preoccupazione e l'altro che spiega per sommi capi: non è opera di Last, ovviamente; lui è stato acciuffato dopo, lo ha beccato nei dintorni della casa mentre il ragazzo stava cercando di capire come aiutarci. L'arciere viene descritto come un probabile militare, che subito dopo aver abbattuto il loro sodale è scappato a cavallo insieme a un altro ragazzino. «Non credo si trattasse di uno di questi pezzenti», conclude: «il cavallo era di razza, un autentico stallone... Un Garkan degli Altipiani, credo». Il mio cuore manca un battito: Astea! Grazie agli Dèi è riuscita a scappare... Chi sarà il ragazzino? Freya? Ruben?
Grom riflette, visibilmente contrariato. «Va bene», dice poi, rivolgendosi al nuovo arrivato. «Prendi il mio cavallo e corri dietro a quello stronzo: portamelo qui, vivo o morto non mi interessa. E vedi di riportarmi anche il moccioso... Vivo».
Lo scherano non perde tempo: un attimo dopo è già fuori, mentre Grom torna a rivolgere l'attenzione a noi.
«Cambio di programma: dobbiamo velocizzare le cose. Voi tre giovanotti, li vedete questi fogli? C'è scritto che, se volete, potete venire con noi alla Rocca di Tramontana, dove vi addestreranno per farvi diventare dei soldati dotati di poteri straordinari, che vi renderanno molto più forti di me o di qualsiasi altro, nonché immuni al morbo dei Risvegliati. Se accettate, SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE, non torceremo un capello ai vostri genitori, anzi riempiremo di soldi le loro tasche, e nessuno di voi ci vedrà più. Se vi rifiutate, beh... Lasciare il feudo in mano ai Risvegliati sarebbe davvero da vigliacchi. E a quel punto anche io potrei rifiutarmi di fare il bravo. Remon, Tuck, Portatemi la puttana».
Saga viene sollevata di peso e portata di fronte a Grom. E' ancora cosciente, nonostante il dolore e le ferite.
«Scommetto che non sei imparentata con nessuno di loro, vero? Si capisce dagli sguardi dei mocciosi». Lei non risponde, limitandosi a guardarlo negli occhi con la fierezza che la contraddistingue. Non ha paura di lui, penso. E' abituata a un tal genere di marrani. Ma è un errore, perché questo atteggiamento sprezzante lo farà infuriare ancora di più.
«E' mia nipote», intervengo. «Viveva oltre il Traunne, l'abbiamo presa con noi lo scorso autunno».
«Che stronzata», commenta Grom. «Non puoi mentire a casa del cazzaro».
«E' la verità!» insisto. «Fa parte della famiglia: ti prego, non farle del mal-»
Lo scagnozzo di nome Tuck mi assesta un colpo alla schiena che mi svuota i polmoni, togliendomi il fiato. «Hai sentito il capo? Basta stronzate». Gli altri due non tardano a unirsi al coro.
«E' veramente una vergogna».
«Non c'è davvero più morale in queste campagne».
Grom sghignazza, quindi fa un passo e si china in terra a raccogliere qualcosa, per poi tornare verso Saga. Il coltello di Scimus.
«Allora, dicevamo: se vi rifiutate - e siete liberi di farlo, sia chiaro - ecco qualche esempio di ciò che potrebbe succedere a quelli più grandicelli...»
Il limitare del Bosco dei Mirtilli si palesa di fronte a noi, una sinistra macchia nera che nasconde l'orizzonte e che risulta ancora più scura del buio della sera che la sovrasta. Per la famiglia Trent, quel bosco è come un vecchio amico con cui hanno litigato da tempo e che adesso viene guardato con diffidenza: la Bestia dei Mirtilli, i Calabroni Grigi... Per me è soprattutto la dimora di Amelia e Dina, dell'eroismo di Aidrich Ramsey, del tragico sacrificio di Cynthia Haller e di tante altre avventure che popolano i racconti di Vodan.
Tuttavia, fino ad oggi non ci sono mai entrata davvero. E quella fila di alberi dai rami adunchi che incombe minacciosamente sul sentiero che stiamo percorrendo non sembra affatto suggestiva e stimolante come la mia immaginazione mi aveva indotta a pensare.
«Hai visto? Ci siamo quasi!» Arken fa di tutto per tenermi su di morale. «Una gita nel bosco, la notte di Eostar: in fondo è emozionante, no?»
«Assolutamente», confermo, stringendomi nelle spalle. Ho i brividi, e non è certo freddo. Che poi in fondo, a voler essere sinceri...
«Hai freddo? prendi questa!» dice avvicinandosi, togliendosi la mantella e mettendola sopra la mia. La accetto volentieri, ringraziando. Lo sguardo mi cade sugli oggetti che porta appesi alla cintura: un coltello da intaglio, simile a quello che tante volte ho visto in mano a suo padre, e la sua fionda. Due armi.
«Per ogni evenienza», risponde lui, quasi a giustificarsi.
Di lì a poco arriviamo alle propaggini del bosco.
«Perché gli alberi sono così spogli? Vodan diceva che erano sempreverdi...»
«Perché sono morti», risponde lui.
«Morti?»
«Stecchiti. Letteralmente».
Li guardo. Non sembrano affatto morti stecchiti! Mentre camminiamo, Arken mi spiega come muoiono gli alberi, e i cinque indizi che ti fanno capire che sono spirati. I buchi, l'angolo, la corteccia, gli insetti e i parassiti.
I parassiti. «Come quelli del morbo dei risvegliati?»
«Non proprio», risponde lui. «Quelli sono parassitoidi, nel senso che sono loro a uccidere l'ospite. Il parassita vero ha invece tutto l'interesse a tenerlo in salute, perché è grazie a lui che sopravvive».
«Come gli Innalzati, allora».
«Innalzati? Sarebbe?»
E' vero, penso: la storia degli Innalzati l'ho raccontata a Ruben, ma non a lui. Provvedo quindi a metterlo a parte delle informazioni che ci hanno raccontato Vodan, Kelly, John Stryker e altri soldati, felice di potergli insegnare anch'io qualcosa. Arken è molto più grande di me, di Ruben e degli altri: se lo volesse potrebbe andare alla Rocca e diventare lui stesso un soldato, seguendo le orme dei suoi cugini Tank e Hart. Ma non credo che sia quella la sua aspirazione: a lui piace disegnare, intagliare il legno e riparare le cose, come suo papà.
«Incredibile: e così Ghaan ne ha diversi, e noi soltanto uno».
«Una», mi affretto a precisare. «Annie. Tank e Hart la conoscono bene! La conoscevano... anche prima che...»
«Capisco». Mi chiede anche di William Deed ma lì ho poco da dirgli, visto che non ne so molto... A parte il disastro che ha combinato e gli sforzi del terzo plotone per rimettere le cose a posto, tutte cose note anche a lui.
Il bosco ci ha inghiottiti da un pò. Mi auguro che sappia dove stiamo andando, perché io mi sono sicuramente persa e non credo che saprei tornare. Non che sia una ipotesi, almeno per ora. Però...
«Ormai dovremmo averlo seminato», dice a un certo punto, guardandosi alle nostre spalle. «Tu vedi qualcosa?» Mentre osserva le cime degli alberi in lontananza, vedo che strizza gli occhi. E' una cosa che gli ho visto fare spesso, specie quando c'è poca luce. Ruben sostiene che si sia rovinato gli occhi a forza di intagliare il legno a lume di candela, ma lui dice che è un difetto che hanno quasi tutti nella sua famiglia, e che comunque gli basta socchiudere gli occhi per vederci benissimo. In effetti con la fionda è il più bravo di tutti.
Scuoto la testa: neanche io vedo nulla. In compenso è sceso un freddo pazzesco, neppure la doppia mantella riesce più a porvi rimedio. Anche quest'anno il Re dell'Inverno è duro a morire.
«Ti va se proviamo ad accendere un fuoco?» Mi propone, sfregandosi energicamente le mani. Vederlo con quella camicia leggera mi fa sentire male, e anche un pò in colpa.
«D'accordo: ma ne siamo capaci?»
«Secondo me sì».
Per prima cosa scegliamo un buon posto, una piccola radura tra gli alberi, quindi ci dividiamo i compiti: lui prende la resina e le pigne, io preparo i rametti e l'archetto. Quando è tutto pronto ci sediamo l'uno di fronte all'altra, nel sottobosco, mettendo insieme quello che abbiamo raccolto e preparato. Nel frattempo è praticamente scesa la notte, ma riesco comunque a vedere i suoi occhi azzurri che mi fissano, vicinissimi ai miei.
«Adesso ci dobbiamo fare un culo pazzesco, lo sai vero?»
«Eh...»
Non riesco a trattenere una risata, che subito coinvolge e trascina anche lui. Per un pò restiamo così, a ridere come due scemi, accovacciati tra le foglie e gli aghi di pino. Poi ci mettiamo al lavoro, dandoci il cambio all'archetto.
«Abbiamo qualche speranza di riuscirci, secondo te?» Chiedo dopo qualche minuto.
«Il figlio di un contadino e la figlia di una locandiera? Vorrei ben vedere!»
«No perché sai, a me non sembra che stia funzionando...»
«E' sempre così, all'inizio: abbi fede. E poi... ti ho fatto una promessa, no? Dobbiamo accendere... il nostro cero...»
Sorrido. «Ma non ce l'abbiamo mica, il cero...»
«Vorrà dire che sarà questo fuoco, il nostro cero. Ci stai?»
Annuisco, divertita e un pò lusingata. «Ci sto».
«Bene! Fatti dare il cambio, allora...» Mi toglie l'archetto dalle mani, quindi riprende a muoverlo su e giù, impegnandosi il doppio di prima. Le sue dita sono fredde, persino più delle mie... Se non altro tutta questa fatica sta avendo l'effetto di scaldarci un pò.
«Senti, ma... che ti hanno fatto?» Mi chiede a un certo punto.
«Chi?»
«Gli uomini da cui vi nascondete. A Dossler».
«Beh... Non molto a me, in realtà. Mi ero tagliata i capelli, tenevo un profilo basso. Sai com'è...» Sospiro.
«Certo». Silenzio. «Scusami», aggiunge dopo un pò. «Non avrei dovuto chiedertelo».
«...non fa niente». Silenzio. «Non chiederlo mai a Saga, però».
«Capisco».
Ancora silenzio, stavolta più lungo, rotto soltanto dal costante sfregamento del rametto contro l'esca di corteccia e muschi secchi. Poi, quando nessuno di noi se lo aspettava più, si verifica il miracolo.
«Aspetta... aspetta! Lo senti questo odore?»
«Credo di... si!»
«Continua, continua...»
«...eccola! La vedi?»
«La vedo! La vedo!»
Avvicino le mani a coppa e soffio delicatamente per tenerla viva, mentre lui continua a muovere l'archetto: pian piano la tenue scintilla prende coraggio, comincia a brillare sempre più forte, poi finalmente sboccia in uno splendente petalo di fuoco che rischiara la notte intorno a noi.
Passiamo i minuti successivi a raccogliere rami e rametti per ravvivare la fiamma, finché non la sentiamo crepitare.
«Il nostro cero!» esclamo, sfinita e soddisfatta.
«Te lo avevo promesso, no? Adesso però dobbiamo custodirlo...»
«Esatto! Finché non arriveranno gli altri».
Già, gli altri. Cosa sarà successo alla fattoria? Con un pò di fortuna Ruben è riuscito ad avvisare Saga, magari a farla uscire di soppiatto mentre Karel e gli altri distraevano i soldati. La mente mi si riempie di scenari positivi: immagino quegli uomini seduti a tavola, convinti ad assaggiare un pò della zuppa di Mà, mentre Saga li beffa calandosi dal retro con una corda fatta di lenzuoli annodati. Perché no, in fondo? Il nostro fuoco alla fine si è acceso, contro ogni previsione: magari è un buon segno.
A un tratto Arken sgrana gli occhi, voltandosi in direzione della boscaglia. «Hai sentito anche tu?»
Scuoto la testa. Lui si porta un dito alle labbra, facendomi cenno di fare silenzio, quindi si alza lentamente.
«MAGARI-SONO-LORO», mormoro con un filo di voce, enfatizzando i movimenti delle labbra.
«VADO-A-VEDERE», risponde lui, parlandomi allo stesso modo. «TU-RESTA-QUI». Muovendosi in punta di piedi raggiunge l'albero più vicino, poi prende la fionda dalla cintola e un sasso dalla tasca. Poi mi guarda negli occhi, sollevando nuovamente il dito verso l'alto: il gesto è identico a quello di prima, ma il significato è completamente diverso. Ne sta arrivando uno.
Pochi istanti dopo, un losco figuro fa la sua comparsa sul ciglio della radura. Il robusto mantello che lo avvolge non mi impedisce di riconoscerlo: è lo stesso bastardo che ci stava inseguendo prima. Come a fatto a trovarci? Abbiamo sbagliato ad accendere il fuoco? Arken si appiattisce contro l'albero, mentre il manigoldo muove lentamente un passo verso di me.
«Sei rimasta da sola? E' una fortuna che ti abbia trovata, allora».
«Chi... chi ti manda? Cosa vuoi da me?» gli chiedo, cercando di evitare di tradire con gli occhi la posizione di Arken. Devo guadagnare tempo.
«Nessuno. Voglio solo proporti... un accordo. Andiamo, ti riporto a casa».
Mi guardo intorno, cercando di capire quale sia la mossa migliore. Alla fine decido di alzarmi, assecondandolo. «Va bene», rispondo sommessamente, sollevando le mani verso di lui: «mi arrendo».
«Saggia decisione».
Fa un altro passo, con l'intento di afferrarmi il polso sinistro. Resto immobile, aspettando che la sua mano mi sfiori, poi scatto in avanti gettandomi addosso a lui. La differenza di forza, peso, dimensioni è persino più grande di quanto pensassi: non riesco a spostarlo neanche di un passo, mentre le sue braccia possenti si chiudono a tenaglia, cingendomi la schiena.
«Presa!» esclama con soddisfazione, flettendo le ginocchia per sollevarmi. In quel momento, le mie mani libere lo afferrano al volto, scostandogli il cappuccio del mantello: sotto ha un elmetto, proprio come immaginavo. Mi allungo su di lui, infilando le dita sotto al bordo metallico ai lati della nuca, quindi glielo calo sugli occhi. Lui reagisce scrollando la testa e sollevandomi in aria, non so se con l'intento di scagliarmi a terra o di stringermi fino a stritolarmi...
Non lo sapremo mai. Il sasso scagliato dalla fionda di Arken si schianta con violenza sul suo osso occipitale. Le braccia si alleggeriscono all'istante, consentendomi di sottrarmi alla presa e scivolare a terra. Un attimo dopo Arken gli piomba addosso da dietro, piantandogli il coltello nella nuca. Cadono insieme a terra, a un palmo dalle braci del nostro cero.
«Ti ammazzo, pezzo di merda: ti ammazzo!» Urla mentre continua a stringere il manico del coltello, come se lasciarlo significasse concedere al nostro aggressore il diritto di rialzarsi... Ma la ferita parla chiaro: non lo farà.
«Basta, Ark», gli dico, coprendo la sua mano con la mia. «E' andato. Ce l'hai fatta». Alla fine lo convinco a mollare la presa. Ci rialziamo lentamente, osservando il macabro spettacolo che abbiamo messo in scena. E' la prima volta che togliamo la vita a un altro essere umano, che vediamo qualcuno andarsene così.
«E' morto, vero?» La sua domanda è un misto indescrivibile di orrore, rimorso e sollievo. Riesco a comprenderlo soltanto perché è ciò che provo anch'io.
«Non ancora, ma morirà presto... ed è quello che merita. Se non lo avessi fatto, mi avrebbe uccisa. Hai fatto la cosa giusta. Mi hai salvata». La macchia rossa di sangue si allarga lentamente, tracimando dal collo fino a lambire il cerchio di pietre che delimita il fuoco.
«Ho protetto... ho custodito il nostro cero».
Apro la bocca per rispondergli, ma un improvviso rumore di rami che si spezzano mi fa trasalire, costringendoci a tornare alla realtà. Ce ne sono altri. Arken mi fa nuovamente cenno di fare silenzio, ma stavolta non facciamo in tempo a organizzarci. Un sibilo sinistro attraversa la radura, seguito da un rumore sordo. Arken solleva la gamba sinistra, portando alla luce un piccolo fiorellino grigio all'altezza della coscia che sta già cominciando a tingersi di rosso.
«Scappa!» fa in tempo a dirmi prima che il dolore lo investa, costringendolo a crollare a terra tra i gemiti. Ma anche se avessi intenzione di abbandonarlo, non potrei andare da nessuna parte: stavolta sono in quattro e arrivano da tutti gli angoli, chiudendoci ogni possibile via di fuga.
«Ma tu guarda che casino».
«Assurdo...»
«...Davvero increscioso».
«Non li sanno più educare, questi ragazzi».
Il primo che ha parlato, presumibilmente il loro capo, si avvicina al corpo esangue del nostro aggressore, mentre gli altri ci puntano le armi addosso. «Faccia a terra», esclama uno di loro. «Fate una mossa falsa e vi ammazzo entrambi».
«Come sta messo?» Domanda un altro.
«Non bene», risponde il capo con un sospiro. «Ma la lama del coltello è ridicola, credo che si sia spezzata: se ci sbrighiamo, forse se la caverà».
L'altro sputa a terra. «Se tira le cuoia, metto a verbale che mi doveva quattro bronzi. L'ho detto, eh?»
Quello che ci ha spinti a terra tira fuori delle corde. «Avete capito, mocciosi? Abbiamo fretta». Procede quindi a legarci le mani dietro la schiena, spingendoci la faccia contro la terra umida in una posizione che mi consente soltanto di vedere i loro piedi.
«Ma nel carretto ne entrano altri due? Non siamo già al completo?»
«Chiedi loro l'età, facciamo prima...»
«Ma non ce li hai gli occhi? Sono entrambi troppo grandi, non vanno bene».
«Il maschio di sicuro, lei non so...»
«Basta chiacchere, buoni a nulla: tiratemeli su».
I tre bestioni ci afferrano e ci rimettono in piedi, portandoci al cospetto del capo. Cosa posso fare? Scappare mi sembra impossibile. Sono esausta, stremata dalla lotta di poco fa. Arken ha una freccia conficcata nella gamba... E' finita, penso. Mi riporteranno a Dossler, dove diventerò la schiava di qualche parente di Creedon... o peggio. E' un bene che Saga non sia venuta, magari è riuscita a scappare altrove.
Il capo mi tira uno schiaffo, riportandomi alla realtà.
«Ti ho chiesto quanti anni hai!»
«N-non lo so», mormoro. «Ho smesso di contarli...» Cosa cambia quanti anni ho? Facciamola finita, mettimi in quel carretto e portami via.
«Vuoi fare la spiritosa? Molto bene, vediamo se riderai ancora adesso che sgozzo come un maiale quello stronzo dell'amico tuo».
«No! Non farlo, ti prego! Lui non c'entra niente..»
«Lo so benissimo, che non c'entra niente! Infatti ho chiesto a te, mica a lui...»
«Quattordici. Ho quattordici anni!»
«Sicura? Mi sembri più grandicella...» Allunga la mano verso... Non mi toccare!
Mi ritraggo con uno scatto. «Lo giuro. Sono nata il-»
Mi zittisce con un'altro schiaffo. «Non me ne frega un cazzo del giorno in cui sei nata: queste cose le racconterai alla Rocca di Tramontana. Avanti, in marcia! Qui abbiamo finito».
Alla Rocca di Tramontana? Che significa? Non capisco...
«E di quest'altro che ne facciamo? Sta perdendo molto sangue...» Mi volto a guardare Arken e subito realizzo quanto ha ragione: la gamba è un disastro, se non gli prestano subito i primi soccorsi morirà di sicuro.
«Vi prego, curatelo!» cado in ginocchio, implorando il capo con le lacrime agli occhi. «Vi seguirò senza fiatare, ma vi imploro...»
«Scherzi? Quello stronzetto ha praticamente ammazzato uno dei nostri! E poi comunque ormai è spacciato, non lo vedi?»
«Non è detto! Se fermate il sangue, potrebbe... Vi supplico!»
Terzo schiaffo. «Falla finita! Dobbiamo andare. E spegnete quel cazzo di falò». Poi mi afferra per l'avambraccio e mi trascina via: lontano da lui, dal fuoco, dall'abitato di Trent. Mi sforzo di non distogliere gli occhi da Arken, i nostri sguardi si incontrano per l'ultima volta. Ha gli occhi vitrei, il dolore dev'essere atroce. Mi sussurra qualcosa, enfatizzando i movimenti delle labbra.
«.....-V-I-V-I»
Scuoto la testa disperatamente. Non ho capito!
«S-O-P-R-A-V-V-I-V-I»
Annuisco. Provo a comunicargli qualcosa anch'io, resistendo con tutte le mie forze agli inesorabili strattonamenti del bestione. «A-N-C-H-E T-»
E poi il fuoco, il nostro cero, si spegne del tutto.
«Pisciare sopra le braci è sempre la mejo cosa».
«Pratico ed efficace! A parte l'odore...»
«Abbiamo salvato un altro bosco».