I campi del Pelennor

Discussioni sul GdR in generale e su tutto ciò che altrove è off-topic.

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Garabombo
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I campi del Pelennor

Messaggioda Garabombo » 22/12/2004, 14:56

BUAHAHAHAHA!!! Ce l'ho fatta!!!

... o almeno spero... mo' lo invio...
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Messaggioda Annika » 22/12/2004, 14:57

e mo che hai creato il topic mettici anche il racconto! :x-mas:
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Messaggioda Garabombo » 22/12/2004, 15:02

BUHAHAHAHAHAH!!!! CE L'HO FATTA DAVVEROOO!!!

Ehm... riprendo un certo contegno, e ritorno serio, che i colleghi mi guardano male...

Rimetto anche io qua i primi due "capitoli", e ne aggiungo un terzo (vedi come si fa ad accattivarsi il pubblico, Anna?? ... scherzo!)

I campi del Pelennor
I.
Si risvegliò nel buio della notte.
Attorno a sé udì urla e grida, in una lingua che non riconobbe, frammiste a crepitare di fuochi e al rumore di pietra e roccia frananti. Si accorse di essere riverso sull’orlo di un fosso, con la mano destra immersa nell’acqua corrente e si chiese stupito perché si trovasse dov’era. Cercò di sollevarsi e, improvvisamente, il ricordo esplose nella sua mente. Vide la battaglia ai guadi, le orde avanzanti lungo ponti e su barche. Quindi la ritirata, trasformata ben presto in fuga; la bestia nera che si precipitava dal cielo e il cavallo impennato che lo disarcionava, mentre tentava un tiro disperato. Poi il buio. Capì che i brividi che sentiva in tutto il corpo non erano dovuti al freddo della notte, ma erano l’urlo di disperazione che il suo corpo ancora provava dopo aver udito il grido della creatura che li stava attaccando dal cielo. Ancora provò il freddo di quella presenza incombente su di loro, nuovamente la speranza lo abbandonò.
Chiuse gli occhi e strisciò lentamente nel fosso, temendo ad ogni momento di riudire la fitta profonda del grido della bestia. Ma nessun grido giunse. Si appoggiò ansimante alla bassa scarpata su cui era steso poco prima e finalmente riaprì gli occhi. Sopra di sé vide un cespuglio di tasso; probabilmente doveva ad esso la propria vita: cadendo da cavallo vi era atterrato sopra, e poi, durante le ore in cui era rimasto senza conoscenza, lo aveva protetto dalla vista dei nemici che avanzavano nella piana.
Il contatto con l’acqua della roggia che gli lambiva le gambe lo riportò lentamente alla piena coscienza: era rimasto fuori. Non sapeva se qualcuno dei suoi compagni si fosse salvato, se avessero fatto in tempo a raggiungere la protezione delle mura prima che il gelo del terrore del loro nemico li sopraffacesse. Di certo c’era che lui era rimasto fuori. Il Cancello, molto probabilmente, ora era serrato e stava resistendo agli assalti lanciati dal nemico. Non vi era possibilità di entrare, a meno di aspettare l’assalto finale e la definitiva sconfitta. Cacciò dalla mente quell’immagine vuota di speranza, non si sarebbe lasciato sopraffare dalla paura. Ora che il ricordo della creatura alata si allontanava piano riacquistò il coraggio e la tranquillità. “No, non cadrà facilmente la nostra città.” Si disse, “resisteremo. Io sopravvivrò e, quando il Sovrintendente ricaccerà il nemico al di là del Rammas, mi troveranno ancora vivo.”
Da sotto il cespuglio di tasso guardò la piana attorno a sé. Il fosso divideva due campi a poca distanza dal muro del Rammas, sul lato meridionale di una lieve collina. Il fondo del canale era a pochi piedi di profondità rispetto al livello del terreno ed era poco più largo di due braccia. A fianco del fosso i corpi di alcuni dei suoi compagni erano visibili nell’oscurità. Ovunque, in lontananza verso occidente, alla sua sinistra, brillavano fuochi nella campagna: il nemico stava incendiano le fattorie appena conquistate. Vide gli eserciti dell’Oscuro Signore brulicare nella piana, urlando e devastando ovunque si passassero: la città, si era ora circondata da una palude di figure nere e fuochi fiammeggianti; le sue mura riflettevano il rosso cupo dei fuochi, per ora integre e non violate. L’assedio era oramai completo: da nord, da ovest, da sud le schiere stringevano la loro morsa. Inesorabile, seppure lenta grazie al valore dei difensori, sarebbe stata la caduta della Torre di Guardia. Volse lo sguardo per non lasciare la disperazione entrare nel suo cuore, e guardò nuovamente attorno a sé. Alle sue spalle, oltre l’altra sponda del fosso, la lieve altura finiva nei campi del Pelennor, per ora ancora non toccati dalla furia avanzante. Solo poche truppe sembravano aggirarsi vicino alla sponda del Grande Fiume: poche erano le file di fiaccole che ondeggiavano nel buio. Ma la collina era una zona di maggiore passaggio. Appena al di là della cima correva la strada che dai guadi portava al cancello, e il rumore dei battaglioni che la percorrevano era udibile distintamente. Al suo fianco la spada era ancora nel fodero, ma sapeva che non sarebbe servita nel caso lo avessero sorpreso: per quanto abile, e lui non lo era particolarmente, essendo arciere della compagnia dell’Ithilien, il numero non lasciava speranza. E se fosse tornata la bestia alata solo il Capitano, e forse pochi altri, sarebbe stato capace di fronteggiarla.

II.
La faretra con le frecce pendeva ancora dal suo fianco destro; con la mano toccò le penne e ne contò tredici; l’arco doveva essere da qualche parte oltre il cespuglio di tasso. Lo cercò nell’oscurità che lasciava indovinare solo le forme più grosse: senza pensare sgusciò da sotto il cespuglio e si avventurò oltre il suo rifugio tastando in silenzio il terreno. Il rumore degli scarponi oltre la collina lo fece muovere lentamente, difficilmente avrebbero potuto vederlo anche se qualcuno si fosse spinto fino sul bordo del colle. Si spinse fino ai corpi caduti dei suoi compagni, ma alla fioca luce dei fuochi accesi nella devastazione riuscì solo ad intuire chi fosse la persona a cui si accostava. Trovò infine un arco che riconobbe sotto le dita come il suo dagli intarsi dell’impugnatura e, poco distante, anche la bisaccia della sua cavalcatura. Dei cavalli, invece, non trovò altro che le tracce della loro furiosa fuga dopo l’attacco; ne indovinò la disperazione e la frenesia del galoppo tastando le tracce sul terreno. Decise che anche per lui era giunto il momento di allontanarsi. Il basso versante della collina non lo avrebbe sottratto ancora per molto all’affollarsi dei soldati nemici al di qua della diga. Presto avrebbero invaso anche quella che per lui si era rivelata una isola di salvezza. Decise di inoltrarsi nei campi dall’altra parte del fosso, che erano, per il momento, ancora poco interessati dall’avanzata nemica.
Sempre il più silenziosamente possibile si calò nuovamente al di là della siepe di tasso, aspettò immobile fino a quando fu sicuro che nessuno lo avesse sentito, quindi attraversò il fosso e si appoggiò sulla sponda opposta. Guardò il cielo, ma gli fu impossibile comprendere che ora fosse della notte, o del giorno. L’oscurità che si era levata il giorno precedente non si era diradata, anzi sembrava ancora più fitta e cupa e non lasciava penetrare la luce di alcun astro. Ipotizzò di essere rimasto steso sull’orlo del canale per quattro ore; tanto credette avessero impiegato le truppe avanzanti ad occupare il terreno attorno alla città. Guardò nuovamente verso occidente, la città a poche miglia di distanza, cercando una via che lo portasse nelle prossimità delle mura, ma per quanto era possibile intuire nella notte e a quella distanza, l’accerchiamento operato dal nemico, seppure non ancora completo, era comunque troppo avanzato per consentirgli di raggiungere la sua meta senza l’insormontabile rischio di essere scoperto. Ovunque avanti a sé vide fuochi e colonne di fumo alzarsi, e figure nere muoversi a gruppi sempre più numerosi attorno ai fuochi.
Decise di discendere la roggia verso il Grande Fiume, in questo modo allontanandosi dalla città e, pensava, dalla maggiore concentrazione degli eserciti assedianti. Lentamente si risvegliava in lui il ricordo di un sentiero lungo il monte alle spalle della città, là dove le cerchie più alte delle mura si univano alla colonna di roccia ed era possibile, camminando sul baratro, uscire dall’abitato, salire lungo il versante fino ad una cengia scoscesa, e quindi ridiscendere un vallone boscoso e raggiungere la pianura coltivata. Distava due o più leghe dal luogo ove si trovava, e l’esercito di Mordor era nel mezzo del suo cammino; ma lo avrebbe raggiunto, o almeno avrebbe tentato di farlo.
Camminò per qualche minuto sul fondo del corso d’acqua, allontanandosi dal tumulto e dirigendosi verso sud – est. La notte divenne sempre più buia, ora il bagliore degli incendi era occultato dall’ondulazione del terreno e a stento individuava le sponde ai suoi fianchi. Solo il cielo assorbiva il cupo rosso della distruzione, ma il suo riflesso non raggiungeva il terreno. Avanzò lentamente e silenzioso: lasciò che i suoi passi si confondessero nello scorrere leggero dell’acqua lungo il suo alveo, tutti i sensi all’erta.
Improvvisamente si fermò: il rumore dell’acqua non gli aveva impedito di udire voci davanti a sé. Un gruppo di persone si avvicinavano alla sua sinistra. Si stese sulla sponda e liberò la spada sotto il suo corpo, l’arco poggiato al suo fianco. Comprese dalle voci che un gruppo numeroso stava raggiungendo il fosso poco più a valle del luogo ove si era acquattato, probabilmente erano quasi un centinaio: una compagnia di orchetti? Udì il clangore delle armature e delle armi, dei passi lunghi e pesanti con cui la compagnia avanzava; probabilmente un plotone di alti Haradrim in perlustrazione. Ne indovinò le figure a un centinaio di passi di distanza raggiungere l’argine del fosso; comparvero alcune torce, non si era ingannato: anche alla fioca luce delle fiaccole riconobbe gli stemmi rossi del regno del sud. Alcuni di essi si chinarono sul fosso, oramai poco profondo rispetto al terreno, e allungarono le mani verso l’acqua empiendo, così gli parve, delle borracce. Coprì, con ciò che rimaneva del proprio mantello, il metallo della sua leggera cotta di maglia e della spada, per impedire che il riflesso delle fiamme rivelasse la sua presenza. Li udì scambiarsi frasi cupe e veloci: non si sentivano al sicuro, nonostante la quasi totale conquista del territorio difeso dal Rammas. Provò la tentazione di tirare rapide frecce nel buio, ma comprese che sarebbero state inutili, e le ultime prima di una rapida morte. Attese che si allontanassero, proseguendo lungo il canale, in immobile e silente preoccupazione: non avrebbe avuto possibilità di cercare un luogo ove nascondersi, nel caso si fossero avvicinati. L’oscurità era la sua unica difesa; a dispetto delle intenzioni del Nemico, l’oscurità lo favoriva.

... ed ora la terza puntata...
Ultima modifica di Garabombo il 10/02/2005, 12:37, modificato 1 volta in totale.
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Messaggioda Garabombo » 22/12/2004, 15:05

Anna, come sei impaziente!! Quasi peggio di me!!!

Ecco qua...

III.
Passati alcuni minuti riprese il suo silenzioso cammino, se possibile con ancora maggiore attenzione e lentezza: stava seguendo i passi della compagnia sudrone e temeva di piombare loro in mezzo senza rendersene conto. Inoltre le sponde del fosso si erano lentamente abbassate ed ora esso scorreva fra bassi argini e solo avanzando chinato era ancora coperto e poco individuabile. Si rese conto che avanzare ancora rappresentava un rischio sempre maggiore, ma se avesse atteso il mattino non gli sarebbe più stato possibile attraversa i campi, sempre che la luce del mattino avesse potuto attraversare la coltre di nubi che ricopriva il cielo. Si fermò nuovamente, appoggiandosi con la schiena al terreno appena rialzato che saliva dal letto del corso d’acqua che stava seguendo; guardò a meridione, verso l’Anduin che piegava il suo corso per riavvicinarsi alle mura della città. La posizione in cui si trovava era troppo poco elevata rispetto al terreno circostante per consentirgli una chiara visione, ma vide che le colonne di fiaccole erano in numero minore rispetto a vicino le mura. Ugualmente l’impresa si rivelava disperata: da oriente, evidentemente, continuavano ad affluire come flutti impetuosi nuovi battaglioni, nuovi eserciti: la diga era definitivamente crollata e solo il baluardo dalle sette cerchia di mura si ergeva come luogo sicuro. Imprecò sottovoce e a lungo; la stanchezza si impadronì del suo corpo, assieme alla sensazione di terrore che oramai conosceva bene.
Alto nel cielo echeggiò un grido di morte che gli congelò il cuore. L’oscurità si fece più cupa e pesò come una cappa pesante su un corpo spossato; non si piegò neppure per proteggersi dal penetrante potere di quel suono stridulo: attese con rassegnazione il colpo che sarebbe giunto inesorabile. Ma, dal buio della morte, comparve davanti ai suoi occhi lo sguardo di una ragazza mora, che sorrideva con il sole negli occhi. La tenebra si arrese attorno a quel viso illuminato dai raggi rossi del sole nascente, sebbene tutto intorno regnasse incontrastata. Aprì gli occhi nel buio di quella notte innaturale; la bestia alata si allontanava: sorrise tremando. “Hai visto, grande guerriero? Pensavi che non avremmo fatto in tempo ad arrivare in cima prima dell’alba, ma ecco che il sole che si alza solo ora!!” Sentì la voce di Kimras schernirlo. La udì ridere della pigrizia con cui si era alzato dal letto, con cui di malavoglia si era inerpicato lungo il sentiero montano, borbottando sottovoce avvolto nel caldo mantello. Quel ricordo riempì il suo cuore, era un dono dei Valar in mezzo ad una pianura frantumata.
Si fermò ad osservare l’alto soffitto di nubi vorticose che sovrastava la terra; le ombre rosso cupo ne definivano i movimenti schiavi del forte vento che spirava da oriente; i Monti Cenere avevano, evidentemente, vuotato le loro riserve di polveri e nebbie per coprire il mondo di uno strato così impenetrabile di miasmi. Che cosa si sarebbe potuto salvare da quella marea urlante?
Non gli importò. Sapeva che poteva solo sperare di entrare in città prima dell’assalto finale, e fuggire sui monti, se fosse stata l’unica alternativa ad una morte eroica, ma inutile. Inoltre il pensiero di perdere Kimras non era accettabile. Nessuno l’avrebbe più separato da lei. Sorrise di sé stesso e di quella osservazione presuntuosa: l’esercito più grande che Uomo ricordasse lo stava separando da lei proprio in quel momento. “Non è abbastanza grande”, si disse, “o almeno lo spero!”.
Si mise seduto sull’argine e cercò un nuovo percorso da seguire; oramai il canale si dirigeva lontano dalla sua meta: poco più a valle, appena superato un ponte che lo attraversava, continuava la sua corsa sempre più verso est, ma a meridione ora doveva dirigere il suo percorso. Avanti a sé vide masse ingombranti emergere dal buio, si era avvicinato ad una delle fattorie in cui era diviso il territorio compreso dall’ampia ansa del fiume e, evidentemente, era ancora intatta. Oltre le costruzioni indovinò un filare di bassi alberi, probabilmente la strada che dal ponte si dirigeva verso la città. Una delle tante vie che costeggiavano i campi del Pelennor. Decise di raggiungerla: sapeva che strade come quella costeggiavano fossi che avrebbero potuto costituire un riparo lungo il suo cammino. Si alzò e si diresse deciso verso la struttura più vicina, a poco più di cinquanta di passi di distanza.

... non ho avuto tempo di rileggere (ancora meno che il resto)... però sono andato abbastanza avanti... ho ancora tre o quattro pagine e probabilmente la storia finirà dopo altre tre o quattro... mi complimento! 8)
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Messaggioda Annika » 22/12/2004, 15:13

Anna, come sei impaziente!! Quasi peggio di me!!!


L'hai detto!!
E il pubblico più ottiene più si fa ingordo, di solito..... :book:
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Messaggioda Garabombo » 23/12/2004, 8:39

Ecco la puntata odierna. Spero vi piaccia, comincia il ballo...

IV.
Appena salito sull’altra sponda del canale si rese conto di aver commesso un errore fatale. Fatti pochi passi in direzione dell’edificio sentì un grido di allarme e vide comparire dal buio della parete una figura che avanzava verso di lui. Sentì gelarsi il sangue nelle vene; una lanterna cieca fu scoperta ed un fascio di luce illuminò pochi metri attorno all’uomo che stava avanzando. Strinse con ansia l’impugnatura dell’arco, maledicendo la sua impazienza che lo aveva spinto a cercare la strada più breve per raggiungere quella roggia: se avesse proseguito fino al ponte avrebbe sempre potuto rimanere al coperto. Ma continuò a camminare senza fermarsi e alzò la mano aperta in segno di saluto, in quel buio non avrebbero potuto riconoscere la sua divisa se non a pochi passi di distanza, l'uomo si arrestò. Sentì il rumore di zoccoli e comparì un cavaliere da dietro la casa. Imprecò nuovamente sottovoce. La sua mano destra estrasse una freccia dalla faretra e l’incoccò senza sollevare l’arco, evitando di mostrare la snella figura dell'asta di legno al di fuori dalla sua ombra. Si mosse con estrema calma e senza fretta, il gelo della determinazione era sceso su di lui. Misurò la distanza dal cavaliere che si stava avvicinando: una cinquantina di passi, sarebbe stato lui il primo bersaglio, sperando di essere incappato solo in una pattuglia e non in una squadra intera. “Ma per Manwe nei cieli!” si disse, “avete conquistato tutto, che bisogno c’era di muoversi con questa attenzione?”. Alzò nuovamente la mano in segno di saluto, fermando la freccia sull'arco con le dita della mano sinistra. Poi si mosse rapidamente: tese l’arco e mirò allo spazio che si trova tra la visiera dell’elmo e l’inizio dell’armatura sotto alla gola e scoccò il tiro. Un tiro difficile, che fra i rami e le fronde dell’Ithilien avrebbe potuto sbagliare, ma che da meno di trenta passi in piano, seppure al buio quasi completo, non si sarebbe permesso di fallire. La freccia stava ancora sibilando nell’aria che, facendo un altro passo, già ne cercava una seconda, la incoccò e tirò alla guardia che lo aveva sorpreso, mirando in pieno petto. Un uomo a piedi, ferito, non gli sarebbe sfuggito. Non si era reso conto di cosa stava accadendo e non reagì al primo tiro. Pregò le Potenze che nessun altro fosse nei paraggi.
Il cavaliere cadde con un tonfo sordo, non aveva avuto il tempo di alzare il braccio coperto dallo scudo. Il cavallo proseguì di pochi passi e si fermò, disorientato dal buio e dalla scomparsa del peso del cavaliere. La guardia alla parete lasciò cadere la lanterna che si spense immediatamente, quindi arretrò e si appoggiò al muro dietro di sé, cercando di rimanere in piedi. L’arciere corse velocemente verso di essa estraendo la spada dal fodero: la freccia spuntava dalla maglia di metallo sul fianco sinistro dell’uomo. Cercò di gridare, ma l’aria gli mancò e allora quasi cadde in ginocchio; estrasse la spada, ma la mano era debole e il braccio senza forza: non riuscì a difendersi dalla figura comparsa nel buio e che li aveva sorpresi con quell'attacco.
Li aveva abbattuti entrambi.
Rimase ansimante contro la parete ad attendere l’arrivo di altri avversari; ma il fato gli arrise: sembrava che in quel giorno malefico ali di fortuna portate dal vento gli giungessero dall'Ovest. Ma non aveva più intenzione di doverne avere bisogno. Si mosse veloce, estrasse le frecce dai due corpi; inoltre tolse il mantello del cavaliere e vi si avvolse, coprendo le insegne di Gondor. La guardia ai piedi della parete possedeva anche una faretra, prese le frecce. Ora ne contava trentuno.
Strisciò fino al bordo della costruzione e guardò oltre: nessuno era in vista nel cortile della fattoria. Si chiese cosa o chi stessero aspettando i due soldati. Girato l'angolo vide la seconda cavalcatura legata ad una ringhiera, la superò correndo leggero lungo la parete meridionale della bassa casa, quindi raggiunse quello che doveva essere il granaio e si fermò nuovamente.
Si volse indietro, ma nessuna nuova figura si muoveva fra le costruzioni. Il rumore dell'occupazione giungeva lontano dalla sua sinistra e davanti a sè. Alle sue spalle, oltre il granaio e al di là della strada costeggiata dagli alberi, poche grida giungevano alle sue orecchie. Questo gli diede coraggio. Corse fino al primo tronco e vi si accovacciò accanto. Sentì avvicinarsi il rumore di cavalli al passo e alte grida di comando da oltre la fattoria e allora saltò nel fosso al di là della strada e corse per una ventina di secondi più chinato che poteva e si fermò ansante. Non sentì l'esplosione di zoccoli lanciati al galoppo o secche urla di sorpresa e capì di non essere stato individuato. Seduto sull'orlo del fosso e appoggiato ad un tronco con la schiena guardò la strada percorsa: quasi duecento passi lo separavano ora dal luogo dello scontro. Vide una lunga colonna di fiaccole superare il ponte sul canale, proseguire lungo la strada sui cui ora si nascondeva e fermarsi ai caseggiati. Le fiammelle si sparsero fra le costruzioni, a volte entrandovi dentro, altre volte fermandosi in gruppi. Presto avrebbero scoperto i corpi, e infatti udì levarsi grida di allarme e di rabbia. Si allontanò di un'altra decina di passi, sicuro che a quella distanza neppure gli occhi di un orchetto avrebbero potuto distinguerlo.
[Continua...]

Purtroppo ieri non ho scritto nulla... ho ancora tre capitoli... ma mi sono bloccato!! So cosa succederà, ma ho messo il protagonista in una situazione impossibile (non che fino ad ora stesse facendosi un idromassaggio...) e non so come ne uscirà... chissà che oggi non mi venga un'ispirazione... :?

Au revoir
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Messaggioda Garabombo » 28/12/2004, 11:52

Ecco che si continua... ma il nostro eroe è sempre in una situazione drammatica!! Nel senso che manca ancora la fine della storia e non riesco ad andare avanti... spero che capodanno mi porti ispirazione! :idea:

V.
Raggiunse un avvallamento del terreno in un campo appena oltre il fosso e vi si sdraiò dentro. Udì cavalli in corsa avvicinarsi, vide le fiamme delle torce arrossare le cime degli alberi a fianco della via e superarlo. Udì altri gruppi al galoppo allontanarsi in altre direzioni, ma in pochi minuti le grida si calmarono e tacquero; solo un basso mormorio giungeva ora alle sue orecchie attente. Le squadre lanciate in perlustrazione tornarono in capo ad un'ora; in tutto questo tempo non si era mosso, concedendosi riposo e il tempo necessario a pianificare le successive tappe della sua strada.
“Una volta che saranno tornati dall'esplorazione,” pensò,” potrò costeggiare questa strada più tranquillamente. Dovrò stare, comunque, attento ad eventuali pattuglie di scolta e a non lasciarmi più tentare da vie facili e sicure. Ho appena potuto vedere come non ve ne siano oggi in questa pianura.” Alzò appena la testa per guardare verso occidente, la città: gli incendi accesi bruciavano sempre più alti ed ora se ne vedeva il fumo coprire i bagliori del fuoco sulle mura. Sembrava che Minas Tirith galleggiasse gigantesca in una palude di fiamme ed esalazioni. Calcolò che quasi tre leghe lo separassero dallo scosceso ingresso al sentiero che lo avrebbe portato in salvo. Era ora di rimettersi in cammino. La squadra che si era allontanata lungo la strada era rientrata già da quasi mezz'ora quando si decise a muoversi: lo star fermo gli aveva fatto cadere addosso la stanchezza e un sonno ingannatore. Ma il continuo ritorno del brivido dovuto all'alto volo della bestia nera lo aveva aiutato a non addormentarsi e così strisciò fuori dal suo nascondiglio con decisione. Il freddo gli era entrato nelle ossa, nonostante la notte fosse tiepida, e l'umidità lo intorpidiva.
Raggiunse il fosso e vi si accucciò, ascoltando il rumore del gruppo acquartierato alle sue spalle. Probabilmente era un intero battaglione in attesa di essere impiegato nell'assalto mattutino. Si mosse e, camminando curvo verso terra, fermandosi spesso appoggiato ai tronchi degli alberi alla sua destra, percorse quasi una lega in poco meno di tre ore. A volte il grido lontano della creatura che li aveva attaccati lo immobilizzava nel passo che stava compiendo, ma presto tornava alla lenta cadenza che si era imposto. Non permetteva più che la disperazione lo avvolgesse quando l'urlo penetrante colpiva le sue orecchie: ogni volta pensava ad uno dei momenti più felici che aveva passato in quell'anno di gioia che era il suo matrimonio con Kimras. A volte ne cercava il sorriso fra le lacrime di terrore quando la bestia scendeva più bassa, sui campi più prossimi alla città, e allora, quando la paura si era allontanata, si ritrovava a ridere del ricordo che aveva evocato. Il giorno in cui si era svegliato e lei aveva ricoperto il letto di petali di fiori, oppure una delle sue risate improvvise ad un raggio di sole entrato di soppiatto in casa. Se non avesse avuto lei, molto probabilmente, si sarebbe rintanato in un rifugio di fortuna ed avrebbe aspettato rassegnato la fine.
Era ancora molto lontano dalle pendici meridionali dei monti, ma tutti quei ricordi gli aveva rafforzato la fiducia e il morale, ed ora solo quando la bestia sfiorava i campi ed il suo urlo quasi doleva nelle orecchie si trovava immobile e tremante. Si era lentamente avvicinato ai monti, ma percorrendo un arco che lo teneva quasi sempre a una lega di distanza dalla città, onde evitare di entrare in quel territorio completamente in mano al nemico che ardeva dei suoi fuochi inquietanti. Aveva quasi sempre seguito sentieri e vie che delimitavano i campi, quasi sempre aiutato dai filari di alberi piantati dai contadini per segnare i confini. Ma ora aveva raggiunto l'ampia strada che dalla città portava verso il Lebennin, e l'ampia carreggiata si presentava come il punto più pericoloso del suo viaggio.
Era a una decina di passi dalla scarpata, appiattito dietro un rigonfiamento del terreno: i fuochi oramai vicini illuminavano di rosso quasi ogni cosa. Continue pattuglie percorrevano la strada, ora a cavallo, ora di corsa, sia verso settentrione sia verso sud. Gli sembrò impossibile di poter attraversare senza essere visto e scoperto. Oramai la notte si avviava verso la mattina, o così aveva calcolato secondo trascorrere delle ore. Ma la tenebra nel cielo rimaneva costante. A poca distanza alla sua destra correva il viottolo che aveva seguito fino a quel momento e che si immetteva nella strada con una svolta verso nord. Il più vicino ponte era a un miglio verso la città, troppo vicino alle mura perché fosse indifeso e non sorvegliato attentamente. La situazione tornò a sembrargli disperata, il rumore degli zoccoli e degli scarponi lungo la strada martellavano nella sua testa e costringevano il suo cuore ad un veloce inseguimento. Temeva ad ogni momento di essere scoperto. Sollevò la testa e guardò nuovamente lungo la strada. La città sembrava così vicina, così facilmente raggiungibile, che la frustrazione di non potervi entrare gli fece serrare i denti. Oramai era completamente circondato dagli eserciti nemici. Non avrebbe mai creduto potessero essere così numerosi. Interi battaglioni di orchetti marciavano lungo le strade e nella pianura, plotoni e plotoni di cavalieri Haradrim avanzavano al galoppo nell'oscurità, seguendo la luce di fuochi alti come intere abitazioni. Nell'ultima ora era avanzato con ancora maggiore circospezione, a volte passando a pochi passi da sentinelle e posti di guardia, confidando solo sull'oscurità e sulla sicurezza che il nemico aveva di controllare oramai completamente tutto il territorio attorno alle mura. Non vedeva se da oltre il fiume giungessero ancora rinforzi, ma le schiere già messe in campo sarebbero state sufficienti per prendere d'assalto la città con buone speranze di successo. E lui si trovava dal lato sbagliato di una strada troppo larga e troppo battuta dalle pattuglie nemiche. Desiderò potersi rintanare in un fosso qualsiasi, e attendere l'assalto finale, il crollo dei cancelli e l'abbattimento delle mura, la battaglia casa per casa e infine la sconfitta definitiva.
[continua...]

Ciao e alla prox...
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Messaggioda Garabombo » 29/12/2004, 8:44

Ci stiamo avvicinando a pagine non rilette... su cui qualche dubbio ancora ce l'ho... questo è l'ultimo pezzo sicuro...

VI.
E invece improvvisamente si levò in piedi, tese l'arco verso nord e scoccò una freccia nel mezzo di una compagnia di orchetti che lo aveva appena superato in direzione della città. Credette di non avere mai fatto una cosa così incosciente. Si mise a camminare verso la strada, l'arco alla spalla, il mantello stretto attorno al corpo come per coprirsi dal freddo, il capo volto verso il tumulto scoppiato fra i soldati alla freccia che aveva trafitto la spalla ad uno di loro. Passò in mezzo ad una compagnia di uomini di carnagione chiara e coi capelli scuri, che ridevano delle urla e delle imprecazioni che gli orchetti si lanciavano l'un l'altro, senza capire cosa fosse successo. Sorrise guardandoli negli occhi e scotendo la testa, in segno di finta disperazione. E fu oltre la strada, sulla scarpata occidentale, di nuovo in mezzo ad un campo, passato oltre un incubo sorridendo di fronte alla morte. Appena, voltandosi, si rese conto di non essere più visibile dalla strada, cadde a terra affondando le mani nel terreno, afferrandolo e tremando violentemente. Sentiva il bisogno di urlare, ma serrò le mascelle, si morse la lingua fino a farla sanguinare; infine ritrovò il dominio di sé e si rese conto di essere vivo. Vivo e vicino alla salvezza, oltre la strada solo poche postazioni erano state preparate. Altre erano in via di costruzione in quel momento, ma ancora incomplete e distanti l'una dall'altra.
Sentiva l'alacre lavoro attorno a sé, ma si sentiva in un'oasi in mezzo al deserto più caldo e torrido del sud della Terra di Mezzo, il gelo gli attanagliava le ossa, ancora stordito da quanto era appena successo. Guardò attorno e vide pochi fuochi, a cinquecento passi verso la città, e poi la mole vicina della montagna: oscura, ingombrante e incombente sulla città fortificata. Avanzò dapprima carponi, fino a che non ritrovò le forze per mettersi in piedi e raggiungere, con una rapida corsa, dei cespugli dietro i quali si sedette. La strada era oramai a mezzo miglio di distanza, ora, finalmente, lontana, con le sue fiaccole e lanterne rivelatrici, con il suo rumore di marce e il clangore metallico delle armi e delle armature.
Sapeva di dover affrettare il passo. Ad oriente un lieve bagliore presagiva l'arrivo di un'alba che non avrebbe cambiato la luminosità del mondo, ma che sarebbe comunque stato il segnale di attacco. Cercò con gli occhi il costone roccioso sotto il quale si apriva la stretta rovina da cui salire al sentiero, ma ne era ancora troppo lontano. Allora abbassò lo sguardo sulla campagna davanti a sé e allargò gli occhi sbalordito: un esercito di spiriti avanzava silenzioso e veloce travolgendo ogni cosa nel suo cammino. Sbattè le palpebre appesantite dalla stanchezza e la visione scomparve: gli sembrò di vedere un nero stendardo splendere contro il nero delle tenebre del cielo. La fatica lo stava sfinendo. Considerando le ore di combattimento ai guadi nella Città Vecchia e poi il tempo del suo vagare fuggiasco fra il nemico, era più di un giorno che non chiudeva gli occhi per dormire. Sentì la spossatezza salirgli le membra, appesantire le palpebre che sbattevano sugli occhi secchi e arrossati. Ma sapeva che non si sarebbe addormentato: ora la meta era vicina, troppo vicina per permettergli di fermarsi a riposare. Quando aveva guardato in direzione della città dalla collina su cui era stato separato dai compagni non aveva creduto, in fondo al cuore, di poter arrivare tanto lontano in quella notte dannata. Il fato lo aveva, invece, portato su di un carro sicuro a poche miglia dalla salvezza: non avrebbe sprecato quella occasione.
Lo prese un senso di urgenza, pensò a Kimras quando aveva appreso che non era rientrato con la sua compagnia; la immaginò guardare dalle mura attorno alle Case di Guarigione la pianura incendiata e brulicante di nere bestie urlanti e ne provò il dolore per il saperlo perso. Volle correre a riabbracciarla e a rassicurarla; sussurrarle parole di pace fra i capelli, sentire il sospiro di sollievo del suo petto.
Si mosse strisciando fuori dal quel precario nascondiglio: non si fece sopraffare dal desiderio. Sapeva di essere vicino al confine del territorio occupato dal nemico, e quindi nella zona meglio controlla. Avanzò strisciando, seguendo le imperfezioni del terreno: ora in un lieve avvallamento, ora su di un campo con le messi schiacciate dal passaggio di schiere veloci. Attorno sentì martellare su pietre e fragori di fiamme improvvisi: mura erano abbattute e nuovi incendi scoppiavano illuminando di bagliori le pendici del monte alla sua destra. In mezzo a quel fragore cercava di indovinare un bisbigliare, il respirare sommesso di una sentinella, il fruscio di un movimento brusco.

Saluti a tutti coloro che sono a lavorare... ci sono anche io! :(

CIAO

Michele
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Messaggioda Garabombo » 04/01/2005, 15:18

Ecco un altro pezzo... oramai scrivo e metto sul sito quasi in diretta, quindi perdonate le imprecisioni/leggerezze del racconto... ma durante le vacanze... ho fatto vacanza!

VII.
Si era allontanato del doppio della distanza che lo separava inizialmente dalla strada quando, a poca avanti a sé sulla sinistra, sentì un rumore di metallo contro metallo. Era avanzato con estrema lentezza e quasi un'ora era trascorsa da quando aveva attraversato la grande via del sud; poco prima, finalmente, aveva individuato le rocce verso cui doveva dirigersi. Si immobilizzò, pietra ferma in mezzo ad un campo di stoppie, e cercò di capire dove si trovava il suo avversario. Attese qualche minuto e sentì un corpo muoversi, quindi vide un basso orchetto a dieci passi di distanza alzarsi, fare un cenno a qualcuno davanti a lui, guardare a destra e a sinistra e risedersi. Attese ancora.
Sentì il basso grugnire dell’orchetto, che evidentemente si lamentava della situazione, e, subito dopo, una risposta giunse da ancora più lontano. Un lungo brivido corse lungo la sua schiena. Il rumore che giungeva dai campi attorno era un poco attutito dalla distanza, ma temeva di muoversi ed essere scoperto. Senza compiere movimenti bruschi sciolse il mantello che lo ricopriva e se lo lasciò scivolare di dosso, al suo fianco: ora era coperto solo dalla divisa degli arcieri dell’Ithilien. Si mosse allora verso destra, sempre strisciando nel terreno con una lentezza esasperante. Mise l’arco a tracolla e spostò il fodero della spada e la faretra sulla schiena, per poter meglio appiattirsi sopra l’umidità dei campi. Cercava di seguire i piccoli fossi di irrigazione che costituivano una fitta rete e il cui terriccio bagnato aiutava a smorzare il rumore del suo avanzare. Lentamente, un pollice dopo l’altro, lasciò alla sua sinistra la guardia che aveva individuato e che continuava a muoversi e borbottare. Dovette piegare il suo percorso ancora più verso destra, perché una seconda guardia gli si parò dinanzi: anche questa non riusciva a rimanere in silenzio e ferma, continuava a girarsi e il battere dello scudo sulla cotta di maglia gli permisero di individuarla prima di esservi troppo appresso. L’esercito di Mordor era troppo impaziente e desideroso di massacro; persino le sue guardie non riuscivano a rimanere immobili a compiere il loro dovere. Impiegò più di un’ora per percorrere all’incirca mezzo miglio. Ora si trovava in un lieve avvallamento, profondo quasi due piedi, e, rotolando, controllò il terreno che dalla strada portava al suo attuale rifugio. Oramai aveva percorso un miglio dalla strada per Pelargir, un miglio che proprio allora cominciava a riempirsi dei nuovi contingenti giunti dall’Est. Non spese ulteriore tempo a controllare la situazione, ma riprese a muoversi verso occidente, non più strisciando, ma in una lieve corsa, piegato quasi a toccare il volto la terra; spesso si aiutava con le mani lungo l’avanzata. Quasi una lega lo separava dai bastioni meridionali di Minas Tirith, e poco meno era la distanza che, calcolò, doveva percorrere per raggiungere, più a occidente, il sentiero che si inerpicava sui monti.
[Continua...]

Saluti e buon inizio anno!! :lol: :drinking:
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Messaggioda Annika » 07/01/2005, 9:44

Poveraccio il nostro arciere! Ma dove spera di arrivare? Io fossi in lui mi nasconderei bene bene in un cespuglio in attesa... più si muove più rischia di venire scoperto!!! O forse ha qualcosa di importante da fare? Sono molto curiosa...

Buon anno a tutti! :)

Anna
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Messaggioda Garabombo » 08/01/2005, 14:11

Mah... tu hai anche ragione... però ci si sente più al sicuro al riparo di quattro mura, piuttosto che in campo aperto... e poi una bella fanciulla lo attende... ;)

VIII.
Si stava finalmente avvicinando alla parte sud occidentale del Rammas, dove questo, una volta costeggiato l’Anduin ai moli, voltava nuovamente verso nord per andare a finire contro le erte pendici del Mindolluin. Poteva già indovinare la sagoma del muro alla sua sinistra, grazie al fuoco delle torce dei soldati nemici che lo percorrevano; fortunatamente vide rare fiammelle correre lungo il camminamento. Ne vide di più a terra, probabilmente di soldati intenti ad abbatterne sezioni. La sua intenzione era quella di raggiungere il punto in cui il muro e il versante del monte si incontravano: una bassa torre fungeva da raccordo e da estrema difesa, ma la pendice del monte era ripida, non verticale, e era possibile scalarla facilmente. Cespugli e bassi arbusti la coprivano; sperava che questi ripari potessero occultarlo alla vista dei nemici. Continuò ad avanzare tenendosi basso e cercando di passare lontano da ogni fonte di rumore e dirigendosi il più velocemente possibile verso la fortificazione al piede del monte. Quando si trovò a un centinaio di piedi dalla torre si accovacciò a terra e la osservò. Quella che avrebbe dovuto essere l’ora dell’alba era già passata, ma l’oscurità rimaneva densa sul Gondor meridionale.
Le pendici del monte si alzavano scure alla sua destra, veloci nell’arrampicarsi, bastioni su bastioni di rocce e radi arbusti; la pianura di colpo finiva ai loro piedi. Davanti a sé ora aveva l’ultimo tratto del Rammas, e la torre che fungeva da raccordo con il versante del Mindolluin. Una luce rossastra fuoriusciva dalle feritoie della fortificazione, e voci e rumori spezzati giungevano dal suo interno. Sul bastione nessuno; nessuna figura, nessuna torcia che si muovesse: i soldati erano intenti a far baldoria nella stanza all’interno della torre. Non si sarebbero accorti di lui.
Impugnò l’arco e vi incoccò una freccia; si guardò attorno e solo lontano, verso la città, poté intuire del movimento. Si alzò e si mosse lento verso il monte, gli occhi fissi alla base della torre, là dove intuiva si trovasse il portone d’accesso, l’arco basso, pronto a tenderlo in un rapido tiro. Raggiunse le pendici del monte e si appoggiò col fianco contro una roccia sporgente. Lasciò correre lo sguardo tutto attorno a sé, dalla torre, lungo il Rammas fino a raggiungere i porti lontani poche miglia, dove vide splendere numerosi fuochi, per poi risalire verso settentrione e guardare la Città, oramai completamente immersa nelle colonne di fumo che si innalzavano dagli incendi tutto attorno. Lasciò vagare la sua mente lungo le vie della città bassa, risalì una cerchia dopo l’altra delle alte mura, lungo la serpeggiante via centrale, per arrivare davanti alle porte delle Case di Guarigione, così come tante volte aveva fatto in passato. Il saluto al guardiano e la solita domanda, poi vide le veloce corsa di Kimras lungo il corridoio centrale, il sorriso sul viso e la risata di gioia. E sentì il calore che cresceva piano dal cuore e abbracciava tutto il suo corpo nel vederla, poi il bacio sulle labbra e la sua voce che gli raccontava del miglioramento dei pazienti, degli insegnamenti dei maestri. La voce allegra e cristallina, le mani di lei intrecciate nelle sue, con le veloci strette sulle dita per fargli i dispetti: “Sto tornando. A pranzo siederò al tuo fianco, te lo prometto.”
Volse il capo nuovamente alla notte in cui si era trasformata la realtà e ascoltò per qualche minuto; nessuno dei suoni che udiva era vicino tanto da preoccuparlo, allora superò la roccia e iniziò ad risalire il versante della montagna. Faceva attenzione a posare i piedi solo su terreno solido e sicuro, per evitare di causare rumore. Dopo pochi piedi di salita dovette mettere la freccia nella faretra e l’arco a tracolla: il terreno impervio lo costringeva a usare anche le mani per aiutarsi. Si portò rapidamente a qualche decina di piedi di altezza sulla piana circostante, poi cominciò a muoversi verso occidente, per superare l’ostacolo del Rammas e poter muoversi più agevolmente verso il sentiero, oramai distante meno di un miglio.
Si trovò presto sulla stessa linea della torre di guardia e si sedette a guardarla, distante poche decine di braccia e al di sotto del suo livello di circa trenta piedi. La parte superiore della torre era in parte crollata: poté vederne l’interno devastato, illuminato da alcune fiaccole, tre orchetti intenti a mangiare seduti in terra. Pensò per qualche momento all’attacco che avrebbe potuto sferrare, ma lo ritenne troppo rischioso. Continuò lungo il suo percorso, silenzioso come il vento nel bosco. E fu oltre il Rammas.
[Continua...]

Ci avviciniamo alla conclusione... o almeno siamo fuori dal pericolo più immediato!

Ciao
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Messaggioda Garabombo » 14/01/2005, 15:04

Scusatemi se non continuo, ma sono in debito di ossigeno! :(
E non riesco a concludere. Tristezza... cercherò in questo fine settimana, magari dopo un'abbondante libagione, durante una notte di tempesta!!

Saluti, e: "EUUIUA 'I SPUUUSSS!!!"

... ve la traduco un altro giorno...

Michele
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Messaggioda Garabombo » 27/01/2005, 11:26

Sempre io... scusate, ma la storia è proprio arenata, sono riuscito a scrivere poche righe, ma il problema è che non so proprio cosa succederà... cercherò di impegnarmi di più... perdonatemi!!!

CIAO!!
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Messaggioda Garabombo » 09/02/2005, 17:46

E tuttdntratt!!! Il coroo!!!

Scusate, reminescenze eliesche. Epperò ecco qua un nuovo capitoletto della storia... che vi sarete totalmente dimenticati. Sono stato davvero davvero lento!
Ma qua si prosegue, alfine!!

IX.
Continuare a camminare in costa non fu difficile. Ora si sentiva abbastanza sicuro e aumentò la velocità del suo incedere. Gli arbusti e le alte erbe davano un buon riparo, la torre già era lontana e non temeva di essere individuato. Lentamente la tensione che lo aveva accompagnato lungo i campi invasi lo abbandonava. Cominciò a sentire fame, il suo corpo si rilassava e la stanchezza lo invase. Camminò fino a raggiungere un gruppo di rocce sporgente e vi si inerpicò, trovando un rifugio dove ripararsi. Ora si trovava sulle pendici più basse del Mindolluin, rivolto verso il meridione. Riposò per qualche tempo, seduto, quasi sdraiato sulla roccia, le armi posate al suo fianco. Ripensava al suo percorso lungo il Pelennor e una strana tranquillità lo avvolgeva. Il grido lontano che ogni tanto giungeva da sopra i campi del Pelennor non raggelava più il suo cuore. Lento scese l’oblio sulla sua stanchezza e si addormentò. Si risvegliò lentamente da un sogno cupo e deprimente, lontani alberi che si frantumavano sotto una immensa frana. Si levò in piedi di scatto guardando attorno a sé la piana ancora scura. Nulla era cambiato; il brulicare di eserciti nemici verso est non si era placato, i fuochi continuavano a bruciare, le cupe nubi ancora restavano basse sul mondo. Nulla sembrava cambiato dal momento in cui si era assopito, non sapeva quanto tempo prima, ma un senso di urgenza gli strinse il cuore. Raccolse le armi dalla roccia e volse frettoloso i suoi passi verso il sentiero che oramai distava pochi passi, appena al di là del gruppo di massi su cui si era riparato. Lo raggiunse svelto e si chinò a controllare il terreno: era stato smosso da calzature pesanti poco tempo prima. Nella scarsa luce distinse una decina di orme diverse che risalivano il sentiero e che lo precedevano di pochi minuti. Sentì il sangue prima gelare nelle vene, poi cominciare a ribollire e a incendiare il suo viso.
Tolse una freccia dalla faretra e la tenne con la mano che stringeva l’arco, quindi cominciò a correre, il più leggero possibile, lungo il sentiero per raggiungere il gruppo che lo precedeva. Tenne i passi brevi e soffici quanto poté, cercando sul terreno le parti più soffici e coperte d’erba, mentre tendeva l’udito per giungere il più lontano possibile.
Il sentiero dapprima saliva quasi verticale dalla pianura, poi a circa duecento piedi d’altezza iniziava un lento serpeggiare lungo il versante: alternativamente verso la colonna di rocce che lo delimitava ad est e uno stretto canalone verso occidente. Con la mente cercava i ricordi dell’intero percorso, richiamando i luoghi, le svolte, i gruppi di pietre e massi, preparandosi all’incontro. Presto raggiunse la prima svolta che si dirigeva verso il canalone e si fermò in ascolto; in alto, sopra di lui, sentiva rumore di passi e di voci lontane. Rimase un attimo a pensare se fosse più conveniente tagliare lungo il rado bosco per raggiungere direttamente il sentiero sopra di sé, oppure se continuare a seguirlo alla sua sinistra. Ripartì di scatto lungo il sentiero: attraversare il bosco, con la fretta che lo stava pervadendo, sarebbe stato causa di troppi rumori rivelatori.
Ad ogni curva, in ogni posto ove la visuale, già scarsa, diminuiva troppo rallentava l’andatura e portava la mano all’elsa della spada. Poi, appena passato quel punto, riprendeva la sua corsa.
Raggiunse e superò il primo gomito, si diresse verso la colonna rocciosa e un’idea gli si affacciò nella mente. Raggiunta la formazione rocciosa, con il sentiero che la sfiorava appena, si fermò nuovamente in ascolto: i rumori provenivano da lontano alla sua sinistra, lungo il sentiero che saliva verso occidente. I suoi avversari dovevano ancora raggiungere la svolta seguente. Si affrettò allora lungo il bordo di rocce e massi che scendevano a cascata dal costone di roccia, deciso a tagliare lungo il bordo del bosco e raggiungere le ultime svolte del sentiero, in alto, qualche centinaio di passi sopra a dove si trovava ora. Sperava, muovendosi con attenzione, che la distanza dalla compagnia che inseguiva e i rumori che essa stessa faceva coprissero il suo avanzare in mezzo ad arbusti e sassi insicuri.
Salì faticosamente; mise il dardo nella faretra e l’arco a tracolla per avere le mani libere. Così avanzò, a volte carponi, artigliando il terreno con le dita, a volte arrampicandosi sulla colonna di pietra alla sua destra. Ma, rabbiosamente, riuscì a raggiungere la sommità della colonna, là dove il sentiero, finalmente senza più ostacoli verso est, la sorpassava e si dirigeva verso la città. Salì sul sentiero e guardò ad ovest, là da dove il sentiero giungeva dopo essersi arrampicato dalla pianura; ancora lontano sentì l’avanzare del gruppo: li aveva superati!
Si volse attorno: nessun luogo, ricordava, era migliore di quello per tendere un’imboscata. Il sentiero correva in piano per qualche decina di passi; a destra, verso sud, la formazione rocciosa iniziava il suo precipizio, mentre a sinistra il versante saliva lieve per qualche iarda, e poi si innalzava per due braccia in una brusca scarpata delimitata, in alto, da alcuni arbusti.
Imbracciò l’arco e salì sopra la scarpata, trovando un posto da cui dominare una ventina di passi di sentiero verso occidente. Estrasse la spada dal fodero e la infilzò nel terreno al suo fianco, quindi incoccò una freccia ed attese.
[continua...]

Scusate se ci saranno errori, imprecisioni e quant'altro... ma l'ho scritta proprio poco poco tempo fa e non l'ho riletta... spero piaccia, almeno!

Salud y suerte ;)
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Messaggioda Garabombo » 10/02/2005, 12:36

Uao!! :D
Sto riuscendo a scrivere con buona regolarità!! E quindi ecco il decimo capitoletto!

X.
Arrivarono dopo pochi minuti; un gruppo di orchetti, non riuscì a contarli, circa una decina, come aveva indovinato dalle impronte. Avanzavano a passo veloce, disordinati come solo un gruppo di orchi poteva essere su di uno stretto sentiero di montagna, pestandosi i piedi, spingendosi e imprecando. Sentendoli avvicinare aveva tolto quattro frecce dalla faretra e le aveva impiantate nel terreno alla sua destra, ora stava tendendo l’arco. Scoccò mirando a un alto orchetto nelle retrovie del gruppo. Lo colpì in petto, appena sotto il collo possente, e quello cadde indietro con un urlo strozzato, urtando il compagno che lo seguiva.
Scoccò di seguito una seconda freccia contro l’orchetto di testa, a circa dieci passi di distanza, colpendolo in volto e facendolo crollare a terra con un tonfo metallico. Il resto del gruppo si arrestò stupito; un grosso capitano, con lunghe braccia coperte da piastre metalliche, scavalcò di un balzo il corpo dell’apripista alzando il largo scudo a proteggersi e brandendo una spessa scimitarra. Gli altri, seguendo il suo esempio, si ripararono anch’essi, scrutando ai lati del sentiero imprecando e agitandosi: ancora non avevano compreso cosa stesse accadendo.
Tese la corda dell’arco; il fischio acuto e il sordo tonfo della freccia gli assicurarono che anche quel colpo aveva raggiunto il suo bersaglio: uno degli orchetti più avanzati che si era voltato a controllare il versante della montagna. Cercò l’ultima freccia infissa nel terreno al suo fianco, ma la mano non la seppe trovare subito e così si voltò d’istinto a cercarla: quel movimento lo rivelò al capitano, che con un grugnito astioso lo indicò agli altri e caricò da meno di sei passi. Il basso dirupo ancora lo proteggeva, così, trovata finalmente l’asticella piumata, la incoccò e tirò veloce ad un basso orchetto che stava per arrampicarsi lungo la scarpata alla sua destra. Riuscì a vedere il dardo colpirlo al fianco, poi dovette abbandonare l’arco, afferrare l’elsa della spada ed affrontare il grosso orchetto che oramai lo aveva raggiunto; aveva superato quasi di un balzo i quasi sei piedi che lo separavano dal sentiero in altezza.
Parò il colpo della scimitarra rivolgendo la lama verso il basso: ancora la sua posizione si dimostrava vantaggiosa, poiché l’orchetto doveva arrancare per salire, e i suoi piedi non trovavano appigli sicuri. Così calò un fendente di traverso, fra la lama levata del suo avversario e lo scudo proteso: colpì la spalla destra protetta da una cotta di maglia e la sua lama penetrò a fondo, obbligando il grosso orchetto a fermarsi. Con un calcio sul petto lo allontanò da sé, liberando la lama e al contempo facendo rotolare il nemico sul sentiero. Due altri orchetti, dietro il primo, si trovarono da questo, intralciati. Allora si diresse verso destra, dove altri due orchetti erano già saliti oltre la scarpata ed avanzavano, uno dietro l’altro, verso di lui. Saltò con un balzo su di una posizione superiore, appoggiandosi alle radici di un albero con cui protesse il suo fianco sinistro. Di nuovo calò il braccio, con tutta la forza che poté, sull’avversario, colpendolo sullo scudo: il colpo del nemico, con una corta mazza, si abbatté sul tronco che lo proteggeva. Si lanciò sul seguente, protendendo la spada in avanti mentre estraeva il forte pugnale che portava al fianco. L’orchetto scartò, evitando la spada, ma oramai era riuscito a annullare la distanza fra loro e gli si gettò addosso, abbracciandolo con il braccio destro e affondando il pugnale nel collo non protetto dell’avversario: un fiotto caldo lo colpì al viso.
Si volse verso il nemico armato di mazza, mentre l’orchetto appena ucciso scivolava alle sue spalle. Oramai il suo vantaggio iniziale stava svanendo. Gli orchetti non erano più sorpresi, ora sapevano contro chi stavano misurandosi. Inoltre, oltre all’avversario che ora aveva di fronte, i due orchetti che avevano dovuto scavalcare il corpo del loro capitano erano saliti oltre la scarpata e stavano avanzando; un altro li seguiva a poca distanza e altri tre si trovavano ora alla sua destra, ancora sul sentiero. Ne indovinava le figure al margine della sua visuale, temette avessero archi o balestre: doveva muoversi velocemente.
Caricò l’avversario proprio mentre questo si lanciava a sua volta. Evitò la mazza tirandosi indietro all’ultimo momento, puntando i piedi contro una radice sporgente; lasciò che caricasse il colpo una seconda volta, da sinistra a destra, e lo parò con la spada, spingendo con forza alla propria destra, per scoprire il fianco dell’avversario e lo colpì con il pugnale con potenza all’altezza dei reni. L’orchetto lanciò un grido strozzato e si piegò su sé stesso, sferrando un forte colpo con lo scudo, che lo colpì alla gamba destra. Sentì la botta, ma non si fermò. Scavalcò il corpo accasciato, sentì un sibilo alle sue spalle seguito da un tonfo in alto, a sinistra: un freccia scoccata lo aveva mancato e si era conficcata nel legno.
Si buttò allora alla sua destra, saltando sul sentiero evitò lo scontro con i due grossi orchetti armati di corte spade. Appena fu a terra si voltò e corse incontro ai tre orchetti che erano rimasti indietro. Ora li vedeva chiaramente a meno di dieci passi: due bassi orchetti, uno con un corto arco a cui stava incoccando una seconda freccia, l’altro con due brevi scimitarre, una per pugno. Il terzo, a differenza degli altri due, era più spostato dal sentiero, stava salendo lungo la scarpata; era più grosso, stringeva una lama ondulata e aveva un lungo scudo che lo proteggeva sul fianco sinistro.
Si diresse più veloce possibile contro l’arciere. L’orchetto tirò, mentre l’altro si scostava impaurito. La freccia lo colpì al fianco, non fece in tempo ad evitarla completamente, ma fu scoccata da troppo vicino e non ebbe la forza per penetrare completamente la sua leggera cotta di maglia. Sentì un dolore acuto sulla pelle, una spanna sopra l’anca sinistra, i muscoli dell’addome si tesero. La sua corsa non si fermò: il colpo non era penetrato a fondo nella carne e non lo impediva nel movimento. Abbatté la lama della spada sull’arco levato a protezione; il legno si spezzò e cadde assieme all’arto amputato che lo stringeva. Da destra il secondo orchetto stava caricando, lo evitò andando a spingere il corpo ferito dell’altro per farlo cadere lungo il dirupo di massi. Fatti pochi passi l’orchetto si riprese, ma era troppo tardi: con un’ultima spallata fu scaraventato nel precipizio urlando di terrore.
[continua...]

So di non essere bravo a scrivere di scontri concitati... se avete dubbi su cosa sta succedendo vi mando un disegno!! ;)

Ciao
Garabombo

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