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22 marzo 518
Domenica 20 Ottobre 2024

Otto promesse (parte 2)

SAGA



«Laury ti prego non piangere, non è il momento!»

Nora fa del suo meglio per calmare la piccola, ma non è facile: questa famiglia ha vissuto troppi traumi per restare serena in un momento del genere. Sono venuti per me? Se così fosse, non me lo perdonerei mai. Queste persone non meritano altre sofferenze.

«Andrà tutto bene, vero?» mi chiede Desiderio, il più piccolo della cucciolata di Scimus e Mà.

«Certo che sì», gli rispondo accarezzandogli la testa. «E poi tu sei quello coraggioso, no?»

Lui annuisce convintamente. «Se dovessero salire, ti proteggerò io!» Aggiunge con un'espressione seria.

Gli sorrido. «Ti ringrazio, ma vedrai... non servirà.»

In quel momento un sonoro rumore di passi rompe il silenzio, facendoci sobbalzare tutti. «Sono io!» mormora Eliane. Patty apre alla figlia, che entra trafelata insieme a Gertie. «Non sono riuscita a trovare gli altri... non so dove sono!»

«Non preoccuparti», la rassicura Patty, che poi si volta a guardare me: mancano ancora Ruben, Last e Freya.

«Dovrebbero essere con Arken... credo», ipotizza Nora. «Volevano fare ancora quella cosa dei fantocci». Me lo auguro... Ark è in gamba, dovrebbe sapere cosa fare in questi casi. Ma se così fosse, come mai non sono tornati qui?

La nostra tensione viene spezzata all'improvviso da un grido di dolore proveniente dal piano terra: Gertie si tappa le orecchie, Laury singhiozza, Eliane e Patty si portano una mano alla bocca. Il grido è presto seguito da uno schianto: legno spezzato, forse la porta.

«Si può sapere che problemi avete?»

«Se vi sedete e ci ascoltate con calma, non vi succederà nulla!»

«Non siete soldati! Non avete nessun diritto di...»

Frammenti di frasi provenienti dal piano di sotto si accavallano l'un l'altro, sovrastati dai deboli singhiozzi di Laury. «Oh Dei!» mormora Patty, abbozzando una preghiera.

Rifletto sul da farsi. Restare qui non serve a nulla: o vado a cercare Freya o scendo a dare una mano come posso. Già, ma come posso? Non sono certo una tipa da attacco frontale: se volano due schiaffi ne prendo tre. Quanto a Freya, potrebbe essere ovunque.... Magari al sicuro, visto che il grosso di questi manigoldi sta qui. No, decisamente meglio scendere di sotto.

«Cosa vuoi fare?» Mi chiede Patty non appena si accorge delle mie intenzioni.

«Non lo so neppure io» le rispondo, scuotendo la testa: «ma non posso starmene qui a non fare niente: vedo se riesco a dare una mano a Karel e agli altri».

Patty scuote la testa: «lascia fare a loro, è meglio: qui sei più al sicuro».

«Il fatto è che... esiste la possibilità che io conosca queste persone: potrebbero essere venuti per me».

La donna mi osserva: conosce la storia. «E anche in quel caso è meglio se non ti vedono, no?»

«Sei gentile a dire così: ma se stanno cercando me, un piano e quella porta non faranno la differenza. La sfonderanno e mi vedranno comunque, e a quel punto potrebbero pensare di punirvi perché mi avete nascosta. Credimi, è meglio così».

«Vengo con te», esclama Desiderio. «Ti guardo le spalle». In una mano stringe il suo cero, nell'altra il piccolo coltellino con cui era intento a intagliarlo fino a poco fa. Stamattina mi ha confidato che stanotte avrebbe voluto accenderlo e custodirlo insieme a me.

«Grazie, ma non è possibile», gli dico con tono dolce ma fermo. «E' una cosa che devo fare da sola. E poi tu devi custodire il nostro cero, no? Stanotte lo dobbiamo accendere, non ricordi?»

«Davvero? Me lo prometti?»

«Certo che si: te lo prometto».

Varco la porta, che subito Patty richiude alle mie spalle. E' robusta e pesante, ma non fermerà quei balordi quando e se decideranno di salire. Mentre scendo le scale, ripenso a ciò che Vodan mi ha spiegato sul ruolo di Kalina la Divina e delle sue compagne alle Case della Gioia. Soldatesse che combattono con armi diverse dalle mie, così le ha definite. Detta così suona male, ma quando mi ha raccontato della scelta coraggiosa di Giada e del ruolo giocato da quella sirena ho compreso il reale significato di quelle parole. Devo ispirarmi a lei, in questo momento difficile: devo fare ciò che è necessario per risolvere questa crisi.

Questa è la risoluzione con cui scendo le scale, subito smorzata dal tetro spettacolo che si palesa ai miei occhi. I soldati hanno varcato l'ingresso, sfondato la porta e raggiunto la sala da pranzo: tre di loro hanno sguainato le armi, rivolgendole contro Karel, Gomar, Scimus e Mà, anch'essi armati; un altro si volta verso di me. Un altro ancora, presumibilmente il capo, brandisce dei fogliacci luridi su cui qualcuno avrà certamente scritto che questi maramaldi hanno il permesso speciale di fare tutto ciò che pare a loro. Come sempre. Trent aveva detto che erano sette, ma ne vedo soltanto cinque: forse gli ultimi due sono rimasti fuori?

Il mio arrivo desta un certo interesse. Cosa farebbe Giada? Il capo mi squadra dall'alto verso il basso, le dita che tamburellano sull'ascia da lancio assicurata alla cintura. E' con lui che devo parlare, da pari a pari e fissandolo negli occhi, ignorando gli inopportuni apprezzamenti della soldataglia.

«Buonasera», mi saluta accennando un inchino: «stavamo giusto facendo le presentazioni».

«Di grazia, potrei sapere cosa volete? Ci stavamo preparando a festeggiare Ostàra».

«Siamo venuti a proporre un accordo vantaggioso», risponde quello, agitando i fogliacci. «Tutto regolare, ovviamente. Garantito dalla Rocca».

«Ovviamente».

Stanno cercando qualcuno, è evidente. Qualcuno che probabilmente non hanno mai visto in faccia. Se è gente mandata da qualche parente di Emon Creedon, potrebbero avere delle descrizioni...

«Non è vero», ribatte Karel: «Non è quello che hanno detto poco fa. Vogliono portare via i marmocchi». I marmocchi? In che senso?

«Beh, si», risponde il capo, sollevando le spalle. «Del resto è proprio di questo che parla l'accordo. Tuttavia, anche scambiare due parole con una bella ragazza non ci fa mica schifo...»

«Andatevene», ringhia Scimus, digrignando i denti e brandendo la sua cucchiara - una grossa pala da neve - verso il soldato più vicino. «Andatevene ora, finché potete farlo: qui non c'è niente per voi». Quello, per tutta risposta, solleva un batocchio di legno non meno lungo e pesante della rancogna di Mà.

Capisco in fretta che il compito di Giada e Kalina in questi frangenti, ovvero il mio compito ora, è impedire alla situazione di degenerare.

«Perché invece non mettiamo via le armi e ci sediamo?» Così dicendo mi avvicino al tavolo. «Sono certa che potremmo raggiungere un accordo, magari diverso, ma comunque... soddisfacente».

Guardo il capo negli occhi, quindi abbasso lentamente lo sguardo. Il pavimento è ingombro dei resti dei ceri, caduti a terra e in gran parte spezzati. Aspetto che si avvicini, cosa che puntualmente accade. Mi scruta, quindi mi prende il mento tra le mani, sollevandomi il volto verso la luce delle torce che scoppiettano nel silenzio della stanza.

«Come ti chiami?»

«Saga», gli dico. E' il momento della verità: se sono venuti per me lo saprò adesso, guardandolo negli occhi. Con stupore, realizzo che non è affatto così. Non è gente dei Creedon. Non stanno cercando noi.

«E dimmi, Saga», continua lui, con voce suadente. «Quanti anni hai?»

«Ventidue».

Annuisce con un sorriso compiaciuto. Fatti coraggio, Saga: è il tuo momento. Se giochi bene le tue carte, puoi sperare di accontentarlo da sola e mandarlo via con poco. Del resto è questo che sei diventata, no? Un pugno di mesi di pace e illusioni non possono cambiare il destino a cui questo feudo maledetto ti ha condannata.

«E allora...» mormora lentamente, avvicinandosi con la bocca al mio orecchio e abbassando la voce fino a renderla quasi un sussurro.

«.... e allora non servi a un cazzo».

Il guanto ferrato dell'armatura mi colpisce in pieno volto, lacerandomi la guancia e iniettandomi il naso di sangue. Precipito su una sedia, che si rompe sotto di me riempiendomi le mani e i fianchi di schegge affilate. Non sento il rumore del mio corpo che cade, nelle orecchie c'è solo un fischio assordante che mi arriva fin dentro al cervello. Il capo mi assesta due calci in rapida successione, quindi mi sputa addosso. «Troia che non sei altro! Pensavi di fottermi, eh? Che cosa avevi intenzione di fare?». Mi raggomitolo a terra, cercando di proteggermi la testa dall'assurda reprimenda di questo pazzo violento. Dove ho sbagliato?

Il fallimento del mio tentativo di mediazione provoca conseguenze opposte a quelle che erano le mie intenzioni: la situazione degenera. Mà brandisce la rancogna e si avventa su uno dei soldati, gridando qualcosa che non comprendo. Scimus mi si piazza davanti, mulinando la cucchiara e costringendo il capo a fare due passi indietro. Goran blocca un fendente al corpo e risponde con una gomitata all'indirizzo di uno dei soldati, mentre Karel viene colpito alla spalla dall'altro, per fortuna - credo - in modo non grave.

«Fatevi sotto, vigliacchi!», urla il capofamiglia alla marmaglia di balordi. «Ben detto!» Gli fa subito eco Scimus: «Facciamo vedere a questi bastardi che sono venuti a mungere la vacca sbagliata!».

Provo a rialzarmi, puntellandomi sugli avambracci sanguinanti: devo aiutarli, devo fare la mia parte. Raggiungo una credenza, mi sollevo, torno in piedi, spreco istanti preziosi alla disperata ricerca di qualcosa da afferrare: una scopa di saggina, un vaso, una padella per le castagne. Sono lenta. Nel momento in cui riesco finalmente a girarmi, il manico della padella stretto tra le mani tremanti, Scimus stramazza al suolo, colpito al volto da un fendente. Un istante dopo è la volta di Karel, raggiunto alla schiena da un secondo colpo di mazza drammaticamente più energico del primo. Goran e Mà sono ancora in piedi, ma a breve si ritroveranno con due avversari a testa.

«Io aspetterei settembre, per quella» mi schernisce il capo, ruotando la spada nella mia direzione. «Ma se proprio hai fretta di usarla...»

Quello che accade dopo è fin troppo scontato. Mi avvento su di lui agitando la padella, consapevole di non avere alcuna speranza, e così è. Un taglio sul dorso della mano mi costringe ad abbandonare la presa, un calcio ben assestato mi spedisce nuovamente con la faccia sul pavimento.

Agli altri non va molto meglio: la rancogna morde l'aria un paio di volte, quindi finisce anch'essa a terra, ben presto seguita da Goran e Mà. Abbiamo perso. E adesso?

Il capo mi posa la punta dello stivale sulla spalla, poi comincia a spingere, sempre più forte, osservando con un ghigno sadico la mia smorfia di dolore crescente. Non è venuto per me ma in compenso mi odia più di chiunque altro. Deve avere il dente avvelenato contro le donne: non lo manderà Creedon, ma lo ricorda parecchio. Anche io ti disprezzo, sai? Anche a me fanno schifo quelli come te. Non sei che l'ennesimo spaporchio molesto, egoista e violento, condannato ad essere respinto per tutta la vita. Stringo i denti, cercando di resistere per non dargli soddisfazione, ma non è umanamente possibile. Il suo piede accompagna la mia articolazione in una torsione innaturale, costringendola prima a tendersi, poi a piegarsi fino a raggiungere il limite, e infine, inevitabilmente, a dislocarsi con un rumore sordo. La mia bocca si contorce in un grido strozzato. Il dolore è atroce, ma riesco a non perdere i sensi. Non ancora.

«Salite a prendere il resto di questi pezzenti», lo sento ordinare a due dei suoi sgherri. «Voialtri, disarmateli e teneteli d'occhio».

Con la coda dell'occhio li osservo mentre salgono le scale. Ripenso alle parole di Karel: Vogliono prendere i marmocchi. Possibile? Perché? A cosa gli servono? Sia come sia, spero che Freya, Ruben e gli altri siano riusciti a scappare lontano.

Vodan... dove diavolo sei? Abbiamo bisogno di te! Avevi promesso...

Saga Thorn



RUBEN



«Come va il ginocchio?»

«Migliora a vista d'occhio», rispondo a Last con un sussurro, mentre continuo a scrutare i dintorni. Dove si sarà cacciato il nostro inseguitore?

«Credo che abbia smesso di seguirci: magari è andato dietro ad Arken e Freya».

Mi auguro di cuore che non sia così. Più riusciamo a tenere l'attenzione di quel soldato rivolta verso di noi, più loro avranno il tempo di raggiungere il boschetto e mettersi al sicuro.

«Eccolo», mormora Last all'improvviso: «Laggiù, vicino al semenzaio!»

Perfetto, penso mentre raccolgo una pietra tra le mani. Mentre mi accingo a tirarla, ripenso alle innumerevoli volte che abbiamo giocato a nascondino in questo labirinto di alberi e arbusti che circondano casa nostra. Io, Freya e Arken eravamo i più bravi. L'unica differenza è che stavolta dobbiamo vedercela con un adulto. L'unica differenza è che stavolta non è un gioco. Beh, vediamo come se la cava questo finto soldato. Lancio il sasso, che compie una lenta parabola nella sua direzione, quindi mi accovaccio tra i cespugli.

Thud!

«Lo hai mancato!», bisbiglia Last.

«Idiota, non miravo a lui: preparati a correre appena si sposta». Last non ha mai imparato le tattiche basilari del nascondino... per questo finisce sempre a contare.

Prevedibilmente, il rumore attira l'attenzione dello scagnozzo: quando si volta, dandoci le spalle e facendo un paio di passi nella direzione che speravo, scatto in piedi e comincio a correre. Il ginocchio abbaia ancora, ma non morde più. Last mi segue come un'ombra: insieme risaliamo furtivamente il sentiero, tenendoci bassi e sfruttando la copertura della fitta siepe di alloro che costituisce il vanto di zio Scimus. Il nostro inseguitore si accorge della manovra e si mette a inseguirci, ma nel punto dove decide di tagliare non c'è un sentiero e ben presto l'erba alta lo costringe a rallentare. Ricordo quando Hart mise il piede dentro un nido di serpenti proprio da quelle parti e mi auguro che al nostro inseguitore succeda la stessa cosa, magari anche peggio. Lo sento bestemmiare: ha capito che adesso dovrà tornare indietro e fare il giro lungo. Bene così.

«Ahah, hai sentito? Ha detto porco p...»

«Ho sentito: non ti distrarre, resta concentrato».

Risaliamo verso casa, approfittando del vantaggio di tempo che ci siamo guadagnati. Il sentiero si apre, regalandoci uno scorcio sul vialetto che porta all'ingresso di casa nostra. I cavalli dei finti soldati, malmessi e denutriti, pascolano davanti alla porta, addentando con scarsa convinzione le primule di zia Mà.

«Hai visto?» esclama Last, puntando il dito poco più indietro: «hanno anche un carretto».

«Già. Mi chiedo cosa se ne facciano, visto che è vuoto». Il sospetto è che siano venuti per riempirlo con la roba nostra. Ci avviciniamo con cautela, fino a sentire stralci della discussione che sta avendo luogo all'interno: a quanto pare non mi sbagliavo, questi cercano qualcosa... O peggio, qualcuno. Devo portare via Saga.

«Aspettami qui», dico a Last: «io cerco di entrare dal retro».

«Va bene, ma... cosa devo fare se torna il soldato?»

«A quel punto mi fai un segnale... il fischio da pastore, d'accordo?». Il fischio da pastore è la specialità di Last, quando lo fa si sente fino a Uryen. «E poi corri da Oger Esmor come se avessi il pepe al c...» La frase mi muore in gola, mentre il mio sguardo si leva verso l'abitato di Esmor e incontra la grande colonna di fumo che si perde nelle ombre della sera ormai incombente. Sotto di lei, bagliori giallastri che non promettono niente di buono.

«Oh cazzo», mormora Last. «Ma che, hanno già acceso i pupazzi?»

Scuoto la testa. Magari, Last. Non è certo paglia, quella che sta bruciando. «... E poi corri verso il boschetto, d'accordo? Così ci incontriamo tutti quanti lì».

«D'accordo. Ma non tirarmi il pacco, eh? Non fare che poi non venite». Lo sento stringermi il braccio, forte. Anche lui adesso ha paura. Come me.

«Tranquillo: te lo prometto».

Di lì a poco raggiungo la porta sul retro: chiusa. Anche le finestre sono sbarrate. Sollevo gli occhi alla ricerca di un'apertura verso cui potermi arrampicare e vedo Eliane che mi guarda dall'alto.

«S-C-A-P-P-A», mi comunica senza emettere un fiato, enfatizzando i movimenti delle labbra: quindi indica in basso, appena dietro di me. Mi volto giusto in tempo per intravedere la sagoma dell'ennesimo soldato, che proprio in quel momento fa capolino dall'angolo opposto della casa.

«Hey, tu: fermo lì!»

Fossi matto. Scatto a correre a perdifiato nella direzione opposta, ignorando i guaiti lamentosi del ginocchio, mentre quello si getta all'inseguimento. Che faccio? Dove vado? L'impulso è quello di dirigermi verso il boschetto, ma prima devo trovare il modo di avvertire Saga. Viro dunque in direzione del frutteto, con l'idea di seminare anche questo inseguitore e poi, magari, tornare sul retro e cercare di contattarla tramite Eliane. Posso farcela. Mi sento come i protagonisti della storia che ci raccontava nonna Laurel, in cui una banda di ragazzini - i "marmocchi", come li chiamava lei - riusciva a mettere sempre nel sacco i soldati della Signoria. Tra un attimo raggiungerò il frutteto. Posso farcela. Non sento più i passi del mio inseguitore, forse ha mollato... ma non posso voltarmi, se mi voltassi perderei velocità e non è una buona idea. Posso farcela.

Poi sento un rumore strano e perdo contatto con il terreno. Rotolo a terra, senza capire cosa sia successo. Un'altra radice? Provo a rialzarmi e a quel punto sento il polpaccio che comincia a urlare a squarciagola, ma una roba che al confronto il ginocchio era muto. Un dolore assurdo, più forte della puntura di un calabrone. Mi tocco la gamba e sento che è bagnata, poi mi guardo le le mani e le vedo rosse. Ma come...

«Dove pensavi di andare, moccioso?» Il bastardo si avvicina a grandi falcate, stringendo in mano quello che sulle prime mi sembra un ramo. No, non è un ramo... è un arco. Abbasso gli occhi sulla mia gamba sinistra, che proprio non vuole saperne di muoversi, e vedo il piccolo pennacchio di piume grigie che spunta dal terreno a circa un metro da me. Pensa se mi prendeva in pieno.

«Ecco, lo vedi cosa mi costringi a fare? Voi mocciosi la dovete piantare di scappare! Non vi hanno insegnato che dovete ubbidire agli adulti, da queste parti?»

Da queste parti. Questi tizi non sono di Dossler, e forse neppure dell'Anterlig. Da dove vengono, allora? E cosa vogliono da noi?

«Avanti, alzati!»

Scuoto la testa. E poi, anche se volessi, la gamba mi fa un male d'inferno.

«Non fare la femminuccia», insiste quello, allungando una mano con l'intenzione di tirarmi su. «Altrimenti mi toccherà fart...»

La frase gli muore in gola, mentre un altro pennacchio di piume - stavolta di colore azzurro - affiora lungo la trachea, appena sopra al bavero dell'armatura.

«Non provare a toccarlo, bastardo!»

Astea? E' la voce di Astea! La vedo emergere lentamente dal frutteto, tra le ombre della sera e la foschia indotta dai rinnovati spasmi della gamba, mentre incocca un'altra freccia. Ma non è necessario: il finto soldato si porta le mani al collo, cercando invano di afferrare l'aria che non ha più modo di inspirare, quindi crolla al suolo in attesa che la vita lo abbandoni. Un colpo perfetto.

«Uno in meno», commenta lei, senza scomporsi. «Come stai?», mi chiede poi, guardandomi la gamba.

«Mi ha preso di striscio... me la caverò».

«Ce la fai a camminare?»

«Si, ma... perché? Cosa vuoi fare?»

«Che domande», risponde lei, brandendo l'arco e indicando la daga che porta alla cintola. «Ammazzarli tutti».

«Sei matta? Non ce la farai mai: sono in sett...» Poi metto a fuoco il corpo esanime riverso davanti a noi. «... ok, sono in sei. Ma sono comunque troppi, per te da sola».

Le mie parole smorzano la sua risolutezza. Riflette. «Hai ragione», conclude poi con un sospiro. «Dobbiamo cercare aiuto. Forse dagli Esmor

«Non penso sia una buona idea: mi sa che ci sono già passati. Io e Last abbiamo visto una colonna di fumo...»

«Capisco. Vorrà dire che cercheremo altrove: aspettami qui, torno subito».

Resto solo col morto, guardandola sparire tra i peschi in fiore con la grazia di una nereide delle lande. Mia sorella mi ha appena salvato la vita. E' molto meglio dei protagonisti delle storie di nonna Laurel. Come ha fatto a diventare così forte e coraggiosa? Mi avvicino al cadavedere. Siamo sicuri che sia morto, si? La pozza di sangue in cui è riverso non sembra lasciare adito a dubbi. Oltre a un arco aveva anche una daga, simile a quella di Astea. La sfilo con cautela dal fodero, cercando di non tagliarmi. Da oggi, questa sarà la mia arma.

«Attento a non tagliarti», mi avverte, mentre riemerge dal frutteto in groppa a Jofnar, il suo cavallo: «quella fa male».

«Lo so: adesso è mia».

«Sta bene, puoi prenderla: adesso però salta su. Vediamo se riusciamo raggiungere qualche soldato di Uryen... quelli veri, intendo».

Saltare non è esattamente facile, considerando la condizione delle mie gambe, ma in un modo o nell'altro riesco a issarmi su Jofnar. Certo che è davvero enorme, oltre che bellissimo. Io e Laury le avremo chiesto almeno cento volte come è riuscita ad averlo: il duello rituale, la trattativa, il vestito da principessa. Per questo gli ha dato quel nome particolare: nella lingua dei Nordri significa principe.

«Sei pronto?»

Annuisco. In men che non si dica siamo lanciati al galoppo, in direzione della torre Nove.

«Astea?»

«Dimmi».

«Finirà tutto bene, vero?»

«Ma certo. Andrà tutto bene, vedrai: dobbiamo solo trovare Ivan Reiner, o John Striker, o Kelly... o Vodan».

«Me lo prometti?»

«Te lo prometto».

Astea Trent - Immagine 3



KAREL



«Vi prego, non fatelo... possiamo pagare». Vorrei poter fare qualcosa in più che pregare questi figli di puttana, ma la realtà è che ci hanno conciati per le feste. Le armi devi saperle usare, diceva sempre il mio buon amico Stern Rock, altrimenti è meglio non averle. Aveva ragione lui... alla fine abbiamo soltanto fatto una figura di merda. Persino Gomar, che un pò di Rocca l'ha fatta, non è riuscito a combinare molto.

«Non rompere i coglioni, vecchio», mi risponde il loro capo, che gli altri chiamano Grom. «Potevi pagare prima, quando ti abbiamo dato la possibilità: hai voluto alzare la cresta, ed ecco il risultato».

«Abbiamo amici nell'esercito», insisto: «abbiamo sempre fatto il nostro dovere. Ci deve pur essere qualcosa che possiamo...»

La voce mi muore nel petto, quando vedo uno dei soldati che trascina sulle scale il corpo esanime di mia moglie.

«Nora! NORA!»

«Tranquillo, oh... Mica è morta! Le ho dato solo una mazzata in testa, ma si riprenderà... credo».

«Perché? PERCHE'? Maledetti... maledetti assassini». Mi trascino in direzione delle scale fino a raggiungere il punto in cui si trovano Saga e Scimus: entrambi vivi, benché ridotti all'impotenza come noi.

«Hai capito, Grom? Questo pensa che siamo degli assassini».

«Tocca spiegarglielo, che non è morto nessuno...».

«... per ora».

«Esatto. Per ora. O, per meglio dire, non ancora».

«Ancora per poco, però... Se continuano a fare gli stronzi a 'sta maniera!».

«Già», conclude Grom, interrompendo il siparietto imbastito dai suoi sodali. «Per questo è il caso che ci diamo tutti una calmata. D'accordo?»

Annuisco, come se non avessi capito che ci sta soltanto prendendo per il culo. Ci siamo sforzati di restare calmi, persino quando ci hanno fatto capire cosa volevano. Hanno iniziato loro a colpirci, quando Saga ha provato a... mediare... nell'unico modo possibile... E guarda come l'hanno ridotta. Bestie, questo sono: alla stregua dei Nordri, forse addirittura peggio. Ma adesso non posso fare altro che assecondarli. Mi sforzo di guardare l'unico lato positivo: quel bastardo ha ragione, non è ancora morto nessuno. E il mio compito è mantenere tutti in vita, costi quel che costi.

Grom si siede sulla mia poltrona, quindi mi indica l'unica sedia ad essere rimasta in piedi. «Siediti, Karel. Ti chiami Karel, giusto?»

Annuisco ancora. Raggiungo la sedia e mi tiro su. Grom è l'unico con un'arma e un'armatura decenti, gli altri hanno tutti mazze, bastoni e pezzi di cuoio male assortiti. Eppure non si comportano come dei semplici banditi. Mercenari in disgrazia? Disertori?

«Posso vedere quelle carte?» Chiedo educatamente, sforzandomi di contenere la rabbia.

«Oooh, così mi piaci, Karel» risponde Grom con soddisfazione. «Guardiamo cosa dicono le carte».

Ciò che leggo ha dell'incredibile. Niente di quanto c'è scritto ha la minima possibilità di essere vero. Dai nove ai quattordici... Ma che senso ha?

Guardo Grom negli occhi, scuotendo la testa. «Conosco bene i soldati della Rocca: non autorizzerebbero mai una cosa del genere. Il comandante Barun...»

«Il "comandante" Barun è un disertore e non comanda più nulla da settimane», si affretta a precisare Grom, come se ripetesse una filastrocca imparata a memoria: «adesso al comando c'è Sir Gadman Scherer. Lo sanno anche i sassi...».

Lo so bene anch'io: l'ho detto apposta per vedere se lo sapeva lui, e a quanto pare è così. Questo significa che la storiella dell'acquisto di bambini non se la sono inventata loro di sana pianta. E chi, allora? Possibile che davvero...

«A quanto pare non conosci così bene i soldati della Rocca. Scommetto che non conosci neppure l'Asilo...».

«Qui c'è scritto VOLONTARIAMENTE» lo interrompo, puntando il dito su uno dei fogli. «... che accetteranno SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE di...».

«Ma certo! SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE, s'intende. E infatti noi siamo proprio qui per convincervi che è la scelta migliore che potete fare. Chi può convincerli ad andare meglio dei loro genitori? E i soldi saranno divisi equamente: metà a loro, che vi daremo adesso, metà a noi che vi abbiamo fornito questa opportunità, e siamo tutti contenti. Nessuno muore, nessuno si fa male... L'accordo perfetto».

«Spiacente, non venderemo i nostri figli alla Rocca di Tramontana. Vi ringraziamo per l'offerta, ma preferiamo rispettosamente declinare». Come se ne avessimo realmente facoltà. Ma ormai non resta che continuare a tenere in piedi questa stupida recita, nell'attesa che questo bastardo si decida a dirmi cosa intende fare.

«Davvero? Che peccato». Grom si alza, scrollando le spalle con l'aria sconsolata di un mercante non è riuscito a concludere un buon affare. «Beh, ragazzi, avete sentito il capofamiglia: purtroppo non se ne fa niente». E così dicendo si dirige verso la porta, facendo cenno a tutti di levare le tende.

«Che peccato!»

«Oh no! Questa non ci voleva.»

«Davvero una disdetta!»

«Eravamo a tanto così dal chiuderla, e invece...»

Non so se mi sta più sui coglioni Grom o il teatrino di guitti che gli tiene il gioco. Gomar mi osserva. Gli faccio capire di tenersi pronto, tra pochi istanti questo farabutto smetterà di fare lo scemo e saremo chiamati a giocarci il tutto per tutto.

«Aspetta un momento», esclama Grom, un attimo prima di varcare la porta ormai scardinata. «Perché non chiediamo direttamente ai ragazzi?»

«Buona idea!»

«Perché no?»

«Mi sembra il modo migliore per cavarsi da questo impaccio.»

«D'altronde non sta mica bene che decidano i genitori per il loro avvenire...»

A un cenno di Grom, i miei familiari - Patty, Eliane, Gertie, Desiderio e la piccola Laury - vengono condotti giu dalle scale e messi in fila indiana di fronte al tavolo, che viene rimesso in piedi. Nora, ancora svenuta, viene adagiata sulla mia poltrona, mentre Grom rimane in piedi. Scimus, Saga e Mà restano riversi a terra.

«Eccoci qua», esordisce Grom. «Adesso faremo un gioco, vi spiego come funziona. Prima di tutto vi dividerete in due gruppi: quelli che non hanno ancora compiuto quindici anni possono restare qui, davanti a questo tavolo: gli altri andranno a mettersi lì, di fianco alla poltrona in cui riposa la signora. Forza, da bravi».

Desiderio e Laury sono gli unici a restare vicino al tavolo, gli altri raggiungono lentamente Nora. Tutti hanno capito che, almeno per il momento, devono ubbidire senza fiatare.

«Molto bene», riprende Grom rivolgendosi ai due rimasti di fronte a lui. «Adesso vi darò la possibilità di scegliere tra due possibili opzioni: una vi consentirà di guadagnare un bel gruzzoletto e diventare degli eroi, salvando la vita non soltanto alla vostra famiglia ma anche a tutti gli abitanti della Signoria, e forse, chissà, persino a quelli di tutta la Contea! L'altra, beh...» conclude, guardando in direzione di Nora e degli altri, «...l'altra, no».

Scende il silenzio. Laury tira su col naso, sforzandosi di non piangere. Guardo Grom, che attende con ansia una risposta. Ho capito cosa vuoi fare, spregevole carogna, ma non funzionerà: non riuscirai a portarceli via, neanche col ricatto. Non te lo permetteremo mai, neanche se dovessi ammazzarci tutt..

«Capo, abbiamo un problema!» La voce arriva da fuori, dev'essere uno dei due scagnozzi che erano rimasti fuori. Sentiamo i passi pesanti che si avvicinano, quindi lo vediamo attraversare la cornice della porta. Non è solo, purtroppo.

«Last!» Grida Mà, con la voce rotta dal dolore. «No, vi prego! Lui no! E' piccolo, ha bisogno di me!»

«Piccolo? A me pare anche più grandicello degli altri», commenta Grom grattandosi il mento. «Quanti anni hai, Last?» Non dirglielo! Menti!

«Quattordici e mezzo». Cazzo.

«Perfetto! Accomodati pure lì, insieme agli altri due... Stavamo giusto facendo un gioco». Mentre Last raggiunge Desiderio e Laury, Grom guarda il suo compare con aria interrogativa: «Beh? Qual è il problema?»

«Bernie è morto».

«Morto? Che dici?»

«Si, morto. Colpito da una freccia, al collo». Si porta la mano sotto al mento, indicandosi il pomo d'adamo. «Proprio qui».

Il resoconto prosegue, con Grom che incalza il suo sgherro con crescente preoccupazione e l'altro che spiega per sommi capi: non è opera di Last, ovviamente; lui è stato acciuffato dopo, lo ha beccato nei dintorni della casa mentre il ragazzo stava cercando di capire come aiutarci. L'arciere viene descritto come un probabile militare, che subito dopo aver abbattuto il loro sodale è scappato a cavallo insieme a un altro ragazzino. «Non credo si trattasse di uno di questi pezzenti», conclude: «il cavallo era di razza, un autentico stallone... Un Garkan degli Altipiani, credo». Il mio cuore manca un battito: Astea! Grazie agli Dèi è riuscita a scappare... Chi sarà il ragazzino? Freya? Ruben?

Grom riflette, visibilmente contrariato. «Va bene», dice poi, rivolgendosi al nuovo arrivato. «Prendi il mio cavallo e corri dietro a quello stronzo: portamelo qui, vivo o morto non mi interessa. E vedi di riportarmi anche il moccioso... Vivo».

Lo scherano non perde tempo: un attimo dopo è già fuori, mentre Grom torna a rivolgere l'attenzione a noi.

«Cambio di programma: dobbiamo velocizzare le cose. Voi tre giovanotti, li vedete questi fogli? C'è scritto che, se volete, potete venire con noi alla Rocca di Tramontana, dove vi addestreranno per farvi diventare dei soldati dotati di poteri straordinari, che vi renderanno molto più forti di me o di qualsiasi altro, nonché immuni al morbo dei Risvegliati. Se accettate, SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE, non torceremo un capello ai vostri genitori, anzi riempiremo di soldi le loro tasche, e nessuno di voi ci vedrà più. Se vi rifiutate, beh... Lasciare il feudo in mano ai Risvegliati sarebbe davvero da vigliacchi. E a quel punto anche io potrei rifiutarmi di fare il bravo. Remon, Tuck, Portatemi la puttana».

Saga viene sollevata di peso e portata di fronte a Grom. E' ancora cosciente, nonostante il dolore e le ferite.

«Scommetto che non sei imparentata con nessuno di loro, vero? Si capisce dagli sguardi dei mocciosi». Lei non risponde, limitandosi a guardarlo negli occhi con la fierezza che la contraddistingue. Non ha paura di lui, penso. E' abituata a un tal genere di marrani. Ma è un errore, perché questo atteggiamento sprezzante lo farà infuriare ancora di più.

«E' mia nipote», intervengo. «Viveva oltre il Traunne, l'abbiamo presa con noi lo scorso autunno».

«Che stronzata», commenta Grom. «Non puoi mentire a casa del cazzaro».

«E' la verità!» insisto. «Fa parte della famiglia: ti prego, non farle del mal-»

Lo scagnozzo di nome Tuck mi assesta un colpo alla schiena che mi svuota i polmoni, togliendomi il fiato. «Hai sentito il capo? Basta stronzate». Gli altri due non tardano a unirsi al coro.

«E' veramente una vergogna».

«Non c'è davvero più morale in queste campagne».

Grom sghignazza, quindi fa un passo e si china in terra a raccogliere qualcosa, per poi tornare verso Saga. Il coltello di Scimus.

«Allora, dicevamo: se vi rifiutate - e siete liberi di farlo, sia chiaro - ecco qualche esempio di ciò che potrebbe succedere a quelli più grandicelli...»

Coltello di Scimus - Immagine



FREYA



Il limitare del Bosco dei Mirtilli si palesa di fronte a noi, una sinistra macchia nera che nasconde l'orizzonte e che risulta ancora più scura del buio della sera che la sovrasta. Per la famiglia Trent, quel bosco è come un vecchio amico con cui hanno litigato da tempo e che adesso viene guardato con diffidenza: la Bestia dei Mirtilli, i Calabroni Grigi... Per me è soprattutto la dimora di Amelia e Dina, dell'eroismo di Aidrich Ramsey, del tragico sacrificio di Cynthia Haller e di tante altre avventure che popolano i racconti di Vodan.

Tuttavia, fino ad oggi non ci sono mai entrata davvero. E quella fila di alberi dai rami adunchi che incombe minacciosamente sul sentiero che stiamo percorrendo non sembra affatto suggestiva e stimolante come la mia immaginazione mi aveva indotta a pensare.

«Hai visto? Ci siamo quasi!» Arken fa di tutto per tenermi su di morale. «Una gita nel bosco, la notte di Eostar: in fondo è emozionante, no?»

«Assolutamente», confermo, stringendomi nelle spalle. Ho i brividi, e non è certo freddo. Che poi in fondo, a voler essere sinceri...

«Hai freddo? prendi questa!» dice avvicinandosi, togliendosi la mantella e mettendola sopra la mia. La accetto volentieri, ringraziando. Lo sguardo mi cade sugli oggetti che porta appesi alla cintura: un coltello da intaglio, simile a quello che tante volte ho visto in mano a suo padre, e la sua fionda. Due armi.

«Per ogni evenienza», risponde lui, quasi a giustificarsi.

Di lì a poco arriviamo alle propaggini del bosco.

«Perché gli alberi sono così spogli? Vodan diceva che erano sempreverdi...»

«Perché sono morti», risponde lui.

«Morti?»

«Stecchiti. Letteralmente».

Li guardo. Non sembrano affatto morti stecchiti! Mentre camminiamo, Arken mi spiega come muoiono gli alberi, e i cinque indizi che ti fanno capire che sono spirati. I buchi, l'angolo, la corteccia, gli insetti e i parassiti.

I parassiti. «Come quelli del morbo dei risvegliati

«Non proprio», risponde lui. «Quelli sono parassitoidi, nel senso che sono loro a uccidere l'ospite. Il parassita vero ha invece tutto l'interesse a tenerlo in salute, perché è grazie a lui che sopravvive».

«Come gli Innalzati, allora».

«Innalzati? Sarebbe?»

E' vero, penso: la storia degli Innalzati l'ho raccontata a Ruben, ma non a lui. Provvedo quindi a metterlo a parte delle informazioni che ci hanno raccontato Vodan, Kelly, John Stryker e altri soldati, felice di potergli insegnare anch'io qualcosa. Arken è molto più grande di me, di Ruben e degli altri: se lo volesse potrebbe andare alla Rocca e diventare lui stesso un soldato, seguendo le orme dei suoi cugini Tank e Hart. Ma non credo che sia quella la sua aspirazione: a lui piace disegnare, intagliare il legno e riparare le cose, come suo papà.

«Incredibile: e così Ghaan ne ha diversi, e noi soltanto uno».

«Una», mi affretto a precisare. «Annie. Tank e Hart la conoscono bene! La conoscevano... anche prima che...»

«Capisco». Mi chiede anche di William Deed ma lì ho poco da dirgli, visto che non ne so molto... A parte il disastro che ha combinato e gli sforzi del terzo plotone per rimettere le cose a posto, tutte cose note anche a lui.

Il bosco ci ha inghiottiti da un pò. Mi auguro che sappia dove stiamo andando, perché io mi sono sicuramente persa e non credo che saprei tornare. Non che sia una ipotesi, almeno per ora. Però...

«Ormai dovremmo averlo seminato», dice a un certo punto, guardandosi alle nostre spalle. «Tu vedi qualcosa?» Mentre osserva le cime degli alberi in lontananza, vedo che strizza gli occhi. E' una cosa che gli ho visto fare spesso, specie quando c'è poca luce. Ruben sostiene che si sia rovinato gli occhi a forza di intagliare il legno a lume di candela, ma lui dice che è un difetto che hanno quasi tutti nella sua famiglia, e che comunque gli basta socchiudere gli occhi per vederci benissimo. In effetti con la fionda è il più bravo di tutti.

Scuoto la testa: neanche io vedo nulla. In compenso è sceso un freddo pazzesco, neppure la doppia mantella riesce più a porvi rimedio. Anche quest'anno il Re dell'Inverno è duro a morire.

«Ti va se proviamo ad accendere un fuoco?» Mi propone, sfregandosi energicamente le mani. Vederlo con quella camicia leggera mi fa sentire male, e anche un pò in colpa.

«D'accordo: ma ne siamo capaci?»

«Secondo me sì».

Per prima cosa scegliamo un buon posto, una piccola radura tra gli alberi, quindi ci dividiamo i compiti: lui prende la resina e le pigne, io preparo i rametti e l'archetto. Quando è tutto pronto ci sediamo l'uno di fronte all'altra, nel sottobosco, mettendo insieme quello che abbiamo raccolto e preparato. Nel frattempo è praticamente scesa la notte, ma riesco comunque a vedere i suoi occhi azzurri che mi fissano, vicinissimi ai miei.

«Adesso ci dobbiamo fare un culo pazzesco, lo sai vero?»

«Eh...»

Non riesco a trattenere una risata, che subito coinvolge e trascina anche lui. Per un pò restiamo così, a ridere come due scemi, accovacciati tra le foglie e gli aghi di pino. Poi ci mettiamo al lavoro, dandoci il cambio all'archetto.

«Abbiamo qualche speranza di riuscirci, secondo te?» Chiedo dopo qualche minuto.

«Il figlio di un contadino e la figlia di una locandiera? Vorrei ben vedere!»

«No perché sai, a me non sembra che stia funzionando...»

«E' sempre così, all'inizio: abbi fede. E poi... ti ho fatto una promessa, no? Dobbiamo accendere... il nostro cero...»

Sorrido. «Ma non ce l'abbiamo mica, il cero...»

«Vorrà dire che sarà questo fuoco, il nostro cero. Ci stai?»

Annuisco, divertita e un pò lusingata. «Ci sto».

«Bene! Fatti dare il cambio, allora...» Mi toglie l'archetto dalle mani, quindi riprende a muoverlo su e giù, impegnandosi il doppio di prima. Le sue dita sono fredde, persino più delle mie... Se non altro tutta questa fatica sta avendo l'effetto di scaldarci un pò.

«Senti, ma... che ti hanno fatto?» Mi chiede a un certo punto.

«Chi?»

«Gli uomini da cui vi nascondete. A Dossler».

«Beh... Non molto a me, in realtà. Mi ero tagliata i capelli, tenevo un profilo basso. Sai com'è...» Sospiro.

«Certo». Silenzio. «Scusami», aggiunge dopo un pò. «Non avrei dovuto chiedertelo».

«...non fa niente». Silenzio. «Non chiederlo mai a Saga, però».

«Capisco».

Ancora silenzio, stavolta più lungo, rotto soltanto dal costante sfregamento del rametto contro l'esca di corteccia e muschi secchi. Poi, quando nessuno di noi se lo aspettava più, si verifica il miracolo.

«Aspetta... aspetta! Lo senti questo odore?»

«Credo di... si!»

«Continua, continua...»

«...eccola! La vedi?»

«La vedo! La vedo!»

Avvicino le mani a coppa e soffio delicatamente per tenerla viva, mentre lui continua a muovere l'archetto: pian piano la tenue scintilla prende coraggio, comincia a brillare sempre più forte, poi finalmente sboccia in uno splendente petalo di fuoco che rischiara la notte intorno a noi.

Passiamo i minuti successivi a raccogliere rami e rametti per ravvivare la fiamma, finché non la sentiamo crepitare.

«Il nostro cero!» esclamo, sfinita e soddisfatta.

«Te lo avevo promesso, no? Adesso però dobbiamo custodirlo...»

«Esatto! Finché non arriveranno gli altri».

Già, gli altri. Cosa sarà successo alla fattoria? Con un pò di fortuna Ruben è riuscito ad avvisare Saga, magari a farla uscire di soppiatto mentre Karel e gli altri distraevano i soldati. La mente mi si riempie di scenari positivi: immagino quegli uomini seduti a tavola, convinti ad assaggiare un pò della zuppa di Mà, mentre Saga li beffa calandosi dal retro con una corda fatta di lenzuoli annodati. Perché no, in fondo? Il nostro fuoco alla fine si è acceso, contro ogni previsione: magari è un buon segno.

A un tratto Arken sgrana gli occhi, voltandosi in direzione della boscaglia. «Hai sentito anche tu?»

Scuoto la testa. Lui si porta un dito alle labbra, facendomi cenno di fare silenzio, quindi si alza lentamente.

«MAGARI-SONO-LORO», mormoro con un filo di voce, enfatizzando i movimenti delle labbra.

«VADO-A-VEDERE», risponde lui, parlandomi allo stesso modo. «TU-RESTA-QUI». Muovendosi in punta di piedi raggiunge l'albero più vicino, poi prende la fionda dalla cintola e un sasso dalla tasca. Poi mi guarda negli occhi, sollevando nuovamente il dito verso l'alto: il gesto è identico a quello di prima, ma il significato è completamente diverso. Ne sta arrivando uno.

Pochi istanti dopo, un losco figuro fa la sua comparsa sul ciglio della radura. Il robusto mantello che lo avvolge non mi impedisce di riconoscerlo: è lo stesso bastardo che ci stava inseguendo prima. Come a fatto a trovarci? Abbiamo sbagliato ad accendere il fuoco? Arken si appiattisce contro l'albero, mentre il manigoldo muove lentamente un passo verso di me.

«Sei rimasta da sola? E' una fortuna che ti abbia trovata, allora».

«Chi... chi ti manda? Cosa vuoi da me?» gli chiedo, cercando di evitare di tradire con gli occhi la posizione di Arken. Devo guadagnare tempo.

«Nessuno. Voglio solo proporti... un accordo. Andiamo, ti riporto a casa».

Mi guardo intorno, cercando di capire quale sia la mossa migliore. Alla fine decido di alzarmi, assecondandolo. «Va bene», rispondo sommessamente, sollevando le mani verso di lui: «mi arrendo».

«Saggia decisione».

Fa un altro passo, con l'intento di afferrarmi il polso sinistro. Resto immobile, aspettando che la sua mano mi sfiori, poi scatto in avanti gettandomi addosso a lui. La differenza di forza, peso, dimensioni è persino più grande di quanto pensassi: non riesco a spostarlo neanche di un passo, mentre le sue braccia possenti si chiudono a tenaglia, cingendomi la schiena.



«Presa!» esclama con soddisfazione, flettendo le ginocchia per sollevarmi. In quel momento, le mie mani libere lo afferrano al volto, scostandogli il cappuccio del mantello: sotto ha un elmetto, proprio come immaginavo. Mi allungo su di lui, infilando le dita sotto al bordo metallico ai lati della nuca, quindi glielo calo sugli occhi. Lui reagisce scrollando la testa e sollevandomi in aria, non so se con l'intento di scagliarmi a terra o di stringermi fino a stritolarmi...

Non lo sapremo mai. Il sasso scagliato dalla fionda di Arken si schianta con violenza sul suo osso occipitale. Le braccia si alleggeriscono all'istante, consentendomi di sottrarmi alla presa e scivolare a terra. Un attimo dopo Arken gli piomba addosso da dietro, piantandogli il coltello nella nuca. Cadono insieme a terra, a un palmo dalle braci del nostro cero.

«Ti ammazzo, pezzo di merda: ti ammazzo!» Urla mentre continua a stringere il manico del coltello, come se lasciarlo significasse concedere al nostro aggressore il diritto di rialzarsi... Ma la ferita parla chiaro: non lo farà.

«Basta, Ark», gli dico, coprendo la sua mano con la mia. «E' andato. Ce l'hai fatta». Alla fine lo convinco a mollare la presa. Ci rialziamo lentamente, osservando il macabro spettacolo che abbiamo messo in scena. E' la prima volta che togliamo la vita a un altro essere umano, che vediamo qualcuno andarsene così.

«E' morto, vero?» La sua domanda è un misto indescrivibile di orrore, rimorso e sollievo. Riesco a comprenderlo soltanto perché è ciò che provo anch'io.

«Non ancora, ma morirà presto... ed è quello che merita. Se non lo avessi fatto, mi avrebbe uccisa. Hai fatto la cosa giusta. Mi hai salvata». La macchia rossa di sangue si allarga lentamente, tracimando dal collo fino a lambire il cerchio di pietre che delimita il fuoco.

«Ho protetto... ho custodito il nostro cero».

Apro la bocca per rispondergli, ma un improvviso rumore di rami che si spezzano mi fa trasalire, costringendoci a tornare alla realtà. Ce ne sono altri. Arken mi fa nuovamente cenno di fare silenzio, ma stavolta non facciamo in tempo a organizzarci. Un sibilo sinistro attraversa la radura, seguito da un rumore sordo. Arken solleva la gamba sinistra, portando alla luce un piccolo fiorellino grigio all'altezza della coscia che sta già cominciando a tingersi di rosso.

«Scappa!» fa in tempo a dirmi prima che il dolore lo investa, costringendolo a crollare a terra tra i gemiti. Ma anche se avessi intenzione di abbandonarlo, non potrei andare da nessuna parte: stavolta sono in quattro e arrivano da tutti gli angoli, chiudendoci ogni possibile via di fuga.

«Ma tu guarda che casino».

«Assurdo...»

«...Davvero increscioso».

«Non li sanno più educare, questi ragazzi».

Il primo che ha parlato, presumibilmente il loro capo, si avvicina al corpo esangue del nostro aggressore, mentre gli altri ci puntano le armi addosso. «Faccia a terra», esclama uno di loro. «Fate una mossa falsa e vi ammazzo entrambi».

«Come sta messo?» Domanda un altro.

«Non bene», risponde il capo con un sospiro. «Ma la lama del coltello è ridicola, credo che si sia spezzata: se ci sbrighiamo, forse se la caverà».

L'altro sputa a terra. «Se tira le cuoia, metto a verbale che mi doveva quattro bronzi. L'ho detto, eh?»

Quello che ci ha spinti a terra tira fuori delle corde. «Avete capito, mocciosi? Abbiamo fretta». Procede quindi a legarci le mani dietro la schiena, spingendoci la faccia contro la terra umida in una posizione che mi consente soltanto di vedere i loro piedi.

«Ma nel carretto ne entrano altri due? Non siamo già al completo?»

«Chiedi loro l'età, facciamo prima...»

«Ma non ce li hai gli occhi? Sono entrambi troppo grandi, non vanno bene».

«Il maschio di sicuro, lei non so...»

«Basta chiacchere, buoni a nulla: tiratemeli su».

I tre bestioni ci afferrano e ci rimettono in piedi, portandoci al cospetto del capo. Cosa posso fare? Scappare mi sembra impossibile. Sono esausta, stremata dalla lotta di poco fa. Arken ha una freccia conficcata nella gamba... E' finita, penso. Mi riporteranno a Dossler, dove diventerò la schiava di qualche parente di Creedon... o peggio. E' un bene che Saga non sia venuta, magari è riuscita a scappare altrove.

Il capo mi tira uno schiaffo, riportandomi alla realtà.

«Ti ho chiesto quanti anni hai!»

«N-non lo so», mormoro. «Ho smesso di contarli...» Cosa cambia quanti anni ho? Facciamola finita, mettimi in quel carretto e portami via.

«Vuoi fare la spiritosa? Molto bene, vediamo se riderai ancora adesso che sgozzo come un maiale quello stronzo dell'amico tuo».

«No! Non farlo, ti prego! Lui non c'entra niente..»

«Lo so benissimo, che non c'entra niente! Infatti ho chiesto a te, mica a lui...»

«Quattordici. Ho quattordici anni!»

«Sicura? Mi sembri più grandicella...» Allunga la mano verso... Non mi toccare!

Mi ritraggo con uno scatto. «Lo giuro. Sono nata il-»

Mi zittisce con un'altro schiaffo. «Non me ne frega un cazzo del giorno in cui sei nata: queste cose le racconterai alla Rocca di Tramontana. Avanti, in marcia! Qui abbiamo finito».

Alla Rocca di Tramontana? Che significa? Non capisco...

«E di quest'altro che ne facciamo? Sta perdendo molto sangue...» Mi volto a guardare Arken e subito realizzo quanto ha ragione: la gamba è un disastro, se non gli prestano subito i primi soccorsi morirà di sicuro.

«Vi prego, curatelo!» cado in ginocchio, implorando il capo con le lacrime agli occhi. «Vi seguirò senza fiatare, ma vi imploro...»

«Scherzi? Quello stronzetto ha praticamente ammazzato uno dei nostri! E poi comunque ormai è spacciato, non lo vedi?»

«Non è detto! Se fermate il sangue, potrebbe... Vi supplico!»

Terzo schiaffo. «Falla finita! Dobbiamo andare. E spegnete quel cazzo di falò». Poi mi afferra per l'avambraccio e mi trascina via: lontano da lui, dal fuoco, dall'abitato di Trent. Mi sforzo di non distogliere gli occhi da Arken, i nostri sguardi si incontrano per l'ultima volta. Ha gli occhi vitrei, il dolore dev'essere atroce. Mi sussurra qualcosa, enfatizzando i movimenti delle labbra.

«.....-V-I-V-I»

Scuoto la testa disperatamente. Non ho capito!

«S-O-P-R-A-V-V-I-V-I»

Annuisco. Provo a comunicargli qualcosa anch'io, resistendo con tutte le mie forze agli inesorabili strattonamenti del bestione. «A-N-C-H-E T-»

E poi il fuoco, il nostro cero, si spegne del tutto.

«Pisciare sopra le braci è sempre la mejo cosa».

«Pratico ed efficace! A parte l'odore...»

«Abbiamo salvato un altro bosco».

Arken Trent - Immagine 01

scritto da Saga, Ruben, Karel, Freya , 00:26 | permalink | markup wiki | commenti (0)
 
22 marzo 518
Venerdì 18 Ottobre 2024

Otto promesse (parte 1)

SAGA



«Si chiama Eostar!»

«In realtà il nome corretto è Ostara

«No, si chiama proprio Eostar...»

«... che è un modo sbagliato di pronunciare Ostara!»

«Eostar!»

«Ostara!»

«Eostar!»

«Ostara!»

«Eostaaaaaar!»

I toni del dibattito si accendono fino a catturare la mia attenzione, distogliendomi dal leggero ondeggiare dei panni ancora da raccogliere.

"Freya, guarda che ha ragione lui", esclamo mentre mi accingo ad arpionare i lembi di una tovaglia particolarmente grande: "qui la chiamano Eostar". Una breve ed energica scrollata e la ripongo nella cesta piegata in quattro, ripetendo un gesto che ho imparato a forza di osservare mamma e poi perfezionato nel corso dei tanti anni che sono passati.

"... perché nessuno ha mai detto loro che si chiama Ostara!" risponde lei, alzando un dito sopra la testa e poi volgendolo verso di sé. "Ma adesso possono contare su di NOI, che possiamo finalmente rivelare la verità!" Così dicendo si volta nuovamente verso il suo interlocutore, sfoggiando la tipica espressione di chi la sa lunga, molto più lunga di te.

Ruben la guarda in cagnesco, quindi gira il collo di lato, incrociando le braccia in segno di stizza e guardando fisso di fronte a sé. "E allora non ti presto la MIA paglia... E potrai dire addio al tuo Kuklalàr".

"Oh no!", esclama Freya fingendo disperazione e infilandosi le mani nei capelli, "non puoi farmi questo: che ne sarà del mio povero Kuklalàr!"

Ruben cerca di restare serio, evitando di guardare Freya negli occhi. Restano così per qualche istante, poi i loro sguardi tornano lentamente a incrociarsi: un attimo dopo scoppiano entrambi a ridere, ed io con loro.

E' già passato più di un anno, ma ancora tutto questo mi sembra incredibile: a dispetto di tutti i calci che il destino ha avuto la malacreanza di assestarci siamo ancora qui, insieme e serene, circondate da persone oneste e generose. E poco importa se, almeno inizialmente, la loro intenzione di accoglierci è stata corroborata dalla promessa di una cospicua parte della diaria di Vodan: con il passare dei mesi siamo diventate parte integrante di questa comunità, che oggi si regge anche grazie al nostro piccolo contributo.

Già, Vodan... Dove stai? E' più un mese che non ti fai vivo. L'ultima volta mi avevi promesso che saresti tornato prima di Ostara. Stai aspettando l'ultimo minuto, così da fare la tua solita entrata a effetto? Magari vestito da Re dell'Inverno... Sarebbe una bellissima sorpresa, Freya ne sarebbe entusiasta. La osservo mentre corre con Ruben verso il vecchio deposito, dove sceglieranno con cura i sacchi di paglia che, nel giro di poche ore, diventeranno dei bellissimi Kuklalàr. Sono proprio carini, insieme. Lui però è ancora un bambino, lei invece ultimamente è cresciuta tantissimo. Hai visto com'è diventata grande? Ha già quattordici anni... Wow. E' già praticamente una donna.

Poi ripenso a quando l'avevo io, quell'età, e... ehm... no, beh, in fondo lei è ancora una bambina. Grazie al cielo. Non c'è fretta. Nessuna fretta davvero.

Saga Thorn - Immagine 02



RUBEN


«Chi arriva ultimo cambia le lenzuola di Laury... per un mese!» Urlo mentre la sorpasso. Vai così! Sono partito dopo, eppure so già che arriverò prima: anche se sono (di poco!) più piccolo, resto comunque più veloce di lei. Del resto lei è una ragazza, è normal...

«Chi arriva ultimo DORME con le lenzuola di Laury... per un mese!» risponde lei, recuperando terreno fino ad affiancarmi. Maledetta! Come fa ad andare così veloce? Non importa, basta correre ancora più veloce. Col cavolo che ci dormo, nelle lenzuola pisciate di Laury!

Torno avanti, ma lei non ci vuole stare: tenta di superarmi tagliando per una piccola macchia di arbusti, che supera con un salto. Che peste! Quando atterra, i capelli le ricadono sulle spalle come spighe di grano. Li ha sempre avuti così lunghi? Che ti frega dei suoi capelli, Rub! Mancano trenta metri al vecchio deposito... la devi superare adesso!

Con enorme difficoltà la raggiungo: percorriamo l'ultimo tratto affiancati, con le spalle che quasi si toccano. Sento il suo respiro affannato: sono avanti? Sono avanti!

Poi, d'improvviso, la tragedia, il disastro, la catastrofe assoluta: metto il piede nel posto sbagliato, perdo l'equilibrio e capitombolo tra le foglie bagnate. Sento la terra umida nel naso, sotto le unghie, dentro ai calzoni, ovunque. Che tu sia maledetta, stupida e nodosa radice di faggio, proprio lì tra i piedi miei dovevi andare a crescere. La caduta fa un male cane, ma non è niente rispetto al dolore delle risate che stanno per ricoprirmi. Eccole, le sento... E' la fine, l'inferno di ghiaccio, la vergogna totale: voglio morire.

«Oh Dèi! Come stai? Tutto bene?»

Se non altro, Freya non ride: anzi, lei è... china su di me, intenta a guardarmi con aria preoccupata. Le risate provengono da quelle zucche vuote dei miei cugini, che spuntano dalla porta del vecchio deposito con il consueto ghigno intagliato al posto della bocca. E dire che è Eostar, mica Samhain.

«...Che figura di merda!» Sentenzia Arken, mettendosi una mano davanti agli occhi.

«Speriamo almeno che non si sia cacato sotto!" gli fa eco Last, mimando il gesto di tenersi la pancia per le troppe risate. Spero solo che la terra che mi è entrata nelle mutande non si veda troppo, altrimenti vaglielo a spiegare... «Le mie condolenze, Frey: non dev'essere facile badare a quell'impiastro tutto il giorno...».

«Si dice condoglianze", risponde lei con aria scocciata, senza voltarsi e continuando a guardare me. «E comunque, il mio nome non è Frey».

Grosso errore, imbecille: Frey è, anzi era, il fratello gemello di Freya... E lei non lo sopporta, quando la chiamano con il suo nome. La guardo e vorrei dirglielo, che io mi ricordo di questa cosa e non lo farei mai questo errore, mica come quell'idiota di Last... Ma se glielo dicessi adesso farei la figura del cretino, no?

«Come stai?» mi ripete, ignorando i due deficienti sghignazzanti. «Ti fa male qualcosa?»

«No, no... tutto bene». In realtà mi fa malissimo il ginocchio, ma non posso fare la femminuccia proprio adesso. Rifiuto orgogliosamente la sua mano gentile e mi tiro su da solo, fingendo di ignorare lo spiedo arroventato che mi trapassa l'articolazione. «Visto? Non è niente! Ti ha detto fortuna, sai... senza quel colpo di sfortuna avrei vinto io!»

Le mie parole vengono seguite dagli applausi derisori dei due figli più scemi di Scimus Trent. Freya li ignora e mi sorride. Anche lei non li sopporta, ne sono certo. A una come lei non possono piacere persone così stupide, egoiste e cattive. E pensare che un tempo li trovavo simpatici...

«Scommetto che siete venuti a prendere la paglia», esclama Arken. «Se volete possiamo prestarvi la nostra carriola, così la portiamo più comodamente e senza faticare».

Scuoto la testa: «grazie ma no, preferiamo portarcela da soli».

Così dicendo arranco verso il deposito, ignorando il dolore al ginocchio. Lancio un'occhiata di sufficienza al trabiccolo su cui i miei cugini hanno caricato i loro sacchi e mi accingo a riempire i nostri due, uno per me e uno per Freya fingendo che vada tutto bene, che il dolore allucinante che dal ginocchio si sta propagando verso ovunque non esista. Lei si offre di aiutarmi, ma non serve: faccio da solo, è un lavoro da uomini. I due scimus mi osservano in silenzio, tra il rispettoso e il divertito: mi aspettano al varco, quando i sacchi saranno pieni e mi toccherà sollevarli. Ecco, ci siamo. Uno, due, tre... Fatto! Dai, non fa poi così male. Sento il peso dei loro sguardi mentre mi trascino fuori dal deposito. E' così evidente che sto soffrendo come un cane?

«Usiamo la carriola, dai», sentenzia Freya con un tono che non ammette repliche: «grazie», aggiunge poi rivolgendosi ad Arken, che accoglie la nostra resa con un sorriso piacione.

«Figurati! Mi fa piacere aiutarvi. A proposito, volevo chiederti una cosa... Hai già deciso con chi accenderai il cero, stanotte?»

No! maledetto: volevo chiederglielo io! Sono giorni che sto aspettando il momento giusto, e alla fine mi ero deciso a farlo oggi... stasera, per la precisione. Avrei voluto farlo mentre preparavamo i Kuklalàr. Tra poco, cioè. E adesso lui...

Freya scuote la testa. «A dire il vero, non ancora...»

«Capisco. E dimmi, ti andrebbe di... insomma, di accenderlo con me?»

Lo odio. Vorrei che morisse. Vorrei vedere il suo fegato pascolato dai vermi. Freya esita, incerta, poi mi guarda con aria interrogativa.

«In realtà... non so se...»

«Ah», la interrompe Arken, «te lo ha già chiesto Ruben? E' così, Rub? Ma quindi... non è che per caso state ins...»

«MA COSA VAI BLATERANDO?» Le parole mi escono da sole. «Assolutamente no! Ti pare?» OK, ora sono io a voler morire. Non potevo rompermi la testa contro quella radice? Vi prego, spiriti della foresta, ghermitemi ora e sprofondatemi nel terreno, adesso, in questo istante.

«Meno male, è un sollievo! Allora, Freya... che dici? Va bene?»

Lei mi guarda, come stupita dalla mia reazione. «Non so, credo... va bene».

«Davvero? E' una promessa?».

«...Ok».

Bleah! Solo a pensare all'idea di vedere Freya che accende il cero insieme ad Arken mi viene da vomitare. Sai che c'è? Stanotte vado a letto presto, chi se ne frega di Eostar. Anzi, col cavolo: aspetto che arrivi il momento di fare il Kuklalàr, quando finalmente saremo io e lei da soli, e allora le dirò che... che... che quell' "ok" ad Arken non mi ha fatto per niente piacere, ecco! Ma proprio per niente! Ma ti pare che dici "ok" a uno così? E poi, fai il Kuklalàr con me e accendi il cero con lui? Valle a capire le ragazze, valle a capire!

«Rub, ti muovi? O ti serve aiuto?»

«Non serve, ce la faccio!»

Carico a malincuore i due sacchi sulla carriola, dubitando di poter fare anche solo un altro passo aggravato da quel peso. Ci mettiamo a risalire per la strada che ci ha condotti qui, superando ben presto l'odiosa radice che ha finito per rovinarmi la giornata: vorrei prenderla a calci, se non fosse che con la sfortuna che ho oggi finirei di certo per rompermi un piede.

Poi Last punta un dito di fronte a noi: verso l'orizzonte, in direzione dell'abitato di Esmor. «Scusate, ma... chi sono quelli?»

«Mmm... Non lo so», risponde Arken, strizzando gli occhi: da lontano non ci vede tanto bene.

«Soldati», mormora Freya. «Dev'essere... Si, dev'essere Vodan!» E poi fa per correre verso quel gruppo di uomini, con il volto che le si illumina di un rinnovato sorriso.

«Ferma!» grido, afferrandole il polso per trattenerla. Il movimento mi costringe a caricare il peso sul ginocchio malconcio, che reagisce lanciandomi uno spasmo lancinante che mi lascia senza fiato. La mano si apre e Freya si divincola facilmente, continuando la sua corsa verso quello che crede sia il plotone di suo fratello.

«Freya! Fermati!» Le urlo nuovamente, invano. «Non hanno...»

«Lasciala andare, no?» mi interrompe Last, come sempre l'ultimo a capire: «che problema c'è?»

"Non hanno lo stendardo», mi fa eco Arken. «Quelli non sono soldati di Uryen».

Ruben Trent - Immagine 01



KAREL



«Ragazzi, abbiamo visite!»

Il tono allarmato che leggo nella voce di Mà non promette niente di buono: vedi se mi non tocca alzarmi di nuovo, dopo una giornata intera passata a spargere semi.

«E allora ditelo che non volete farmele fare, queste candele», sbotta Scimus, sbattendo sul tavolo il coltello con cui era intento a intagliare l'ennesimo cero per la notte di Eostar.

«Ma lo sai che sta venendo davvero niente male?» Esclama Nora, gli occhi fissi sul lungo moccolo giallastro. «Che cos'è, una volpe?»

«Quasi... un lupo! Vedi le orecchie? La volpe le ha più grandi...»

«...Vero! E come mai un lupo?»

«Mi diceva Saga che era un simbolo di Harkel... vero, Saga?»

«Saga è uscita a ritirare il bucato mezz'ora fa», gli risponde Mà. «Alzalo quel collo, ogni tanto!»

«Basta candele», taglio corto, mentre costringo le mie stanche membra a sollevarsi dalla poltrona. «Vediamo chi viene a rompere le scatole». Poi vedo che Mà sta prendendo la rancogna da sopra al camino e capisco che si tratta di soldati.

La rancogna è un ramo di olivo insolitamente lungo e resistente che si tramanda nella mia famiglia da generazioni: Scimus è solito dire ai nostri ospiti che risale all'età dei Khan, ma in realtà mi sembra di ricordare che lo abbia raccolto nostro nonno nei dintorni di Mar. Fatto sta che, da quando i Nordri hanno cominciato a farci visita, è diventato il compagno preferito di Mà.

Butto un'occhio fuori dalla finestra: «sono in sette, tutti a cavallo».

«Saranno i tuoi ragazzi, Gomar», commenta Scimus. «Lo dicevo io, che non si sarebbero persi la minestra di legumi e tartufo di Mà».

«Non credo», risponde Gomar, alzandosi a sua volta. «Tank diceva che li avrebbero mandati a Dossler...»

«E avranno fatto un cambio, sapendo della minestra: io ci avrei provato».

«Non sono i ragazzi», confermo poco dopo aver aperto la porta. «Vado a vedere cosa vogliono. Gomar, dai un'occhio qui: se vedi che butta male, tirate fuori i pezzi». I pezzi sarebbero la mia mazza, la cucchiara di Scimus e la spada che s'è tenuto Gomar dai tempi in cui era soldato: le uniche armi che abbiamo. A parte la rancogna di Mà, s'intende. Ironicamente, l'unica che abbia mai fatto il morto è la cucchiara.

Mà mi accompagna fuori, trascinando la rancogna. «Che sia Vodan con gli amici suoi? E' un mese che non si fa vivo, quel filibustiere! Sarebbe anche ora che portasse un pò dei soldi che ci deve...»

Scuoto la testa. «Non è lui: e neanche Ivan. Non mi sembra di averli mai visti, questi». E non è una cosa buona, aggiungo tra me e me mentre accelero il passo. Come anche il fatto che non vedo nessuno stendardo.

Mà digrigna i denti: «non saranno mica...»

«No, non sono neanche Nordri. Saranno viandanti che cercano cibo, o forse un posto in cui passare la notte...»

«...o magari soldi. Ma vedo che hanno anche un carretto con le sbarre, o sbaglio? Come quello che portava in giro Seth Lakeman, te lo ricordi?».

«Già. E non mi piace per niente. Vado a parlarci, tu torna in casa e fai salire le ragazze».

«D'accordo».

«I marmocchi dove stanno?»

«I miei giravano dalle parti del vecchio deposito, stavano prendendo i sacchi...»

Annuisco. «Recuperali e falli salire tutti su: e dì Gomar e Scimus di preparare i pezzi».

«Va bene. Ma tu stai in campana, eh?».

«Tranquilla».

«Promesso?».

«Promesso».

In quel momento mi viene incontro Saga, con la cesta piena di panni ancora tra le braccia. «Li conosci?» mi chiede con aria interrogativa e un pò preoccupata. Anche lei non sembra averli mai visti, il che potrebbe essere un bene: magari non sono uomini dei Creedon. «Mai visti», le rispondo. «Rientra a casa e vai su con gli altri, qui me la vedo io».

«Freya è tornata?», mi chiede con aria preoccupata, guardando in direzione del vecchio deposito.

«Non lo so: vedi se sta in casa, altrimenti falla cercare da Eliane: tu è meglio che non ti fai vedere, casomai fossero gli uomini di chi-sai-tu». Saga fa cenno di sì con la testa, quindi affretta il passo verso casa.

La cosa peggiore quando sei il capo famiglia è che devi sempre prendere la decisione giusta. A me questa cosa riesce bene con le bestie e le sementi, ma con le persone è un'altro paio di braghe. Stringo i pugni per farmi coraggio e, solo in quel momento, mi accorgo di avere in mano il coltellaccio di Scimus, con la punta della lama ancora sporca di cera. Devo averlo raccolto d'istinto, quando mi sono alzato: ormai il mio cervello si è abituato a prevedere l'arrivo dei casini. Lo nascondo sotto la camicia e mi avvicino ai sette, alzando la mano in segno di saluto: vediamo come butta.

Karel Trent - Immagine



FREYA


Le gambe si muovono da sole, senza sforzo, del tutto immemori della corsa a perdifiato di pochi minuti fa. Ho sperato tanto di poter passare Ostara insieme a Saga e a Vodan! Fosse mai che, per una volta, gli Dèi avessero deciso di farmi contenta? Sarebbe quasi come ai vecchi tempi, a Nuova Lag...

Uno dei soldati mi nota, mi indica. Di lì a poco si girano tutti verso di me. Sono in sette. Nessuno di loro sembra essere Vodan, e non vedo neanche Kelly e John. Di fronte a loro, sul sentiero, ci sono Karel Trent e sua moglie Nora che li stanno raggiungendo a grandi passi. Anche loro mi vedono, e subito mi fanno cenno di andare verso casa. Hanno un'espressione preoccupata. Il soldato che mi ha vista scende da cavallo e comincia ad avanzare nella mia direzione. Cosa sta succedendo?

«...Non hanno lo stendardo. Quelli non sono soldati di Uryen».

La sentenza di Arken mi investe come una folata di vento gelido. Oh no, penso tra me e me, mentre la memoria mi scava nella testa facendo emergere i ricordi di oltre un anno fa. Gli scagnozzi dei Creedon: ci hanno trovate!

Torno rapidamente sui miei passi, volgendo le spalle al falso soldato che, nel frattempo, ha già cominciato a scendere verso di noi: «Dobbiamo scappare!» Poi guardo Ruben, e mi ricordo del suo ginocchio: fa finta di niente, ma si capisce che può a malapena camminare. «Come facciamo?»

«Ci penso io», esclama Arken, ribaltando la carriola con un gesto deciso. I quattro sacchi di paglia rotolano in terra con un rumore sordo, dando vita a una scena simile alle pratiche di pulizia che tante volte ho visto sbrigare alle guardie dell'Ongelkamp di Dossler quando giungeva l'ora di disfarsi dei corpi di chi non ce l'aveva fatta. Neanche i nostri Kuklalàr ce la faranno, penso con malinconia. Non oggi, almeno.

«Forza Ruben, sali!».

Ruben si accovaccia nel cassone senza esitare: un istante dopo Arken volge la punta della carriola verso il vecchio deposito e prende a spingerla con le sue braccia nodose lungo il sentiero fitto di radici, con noi dietro di lui. La ruota sobbalza più volte, restituendo a Ruben contraccolpi dolorosi, ma lui non fiata: nessuno di noi lo fa, mentre corriamo a perdifiato lungo i sentieri che tante volte abbiamo battuto con ben altro spirito, immersi nei nostri giochi. E' già ora di andare? E' già finito anche questo posto? Il solo pensiero mi riempie gli occhi di lacrime. Non sono pronta per andare via, non ancora. Devo avvertire Saga, dobbiamo...

«Dove la nascondiamo?» chiede Arken non appena la sagoma del vecchio deposito ci nasconde agli occhi dello sgherro in avvicinamento.

Lo sanno, penso. Lo hanno capito anche loro che quelli sono venuti per me.

«Nel deposito sarebbe un suicidio», risponde Ruben: «se lo stronzo decide di guardarci dentro la becca di sicuro».

«Ma se torniamo alle case?» domanda Last.

«E cosa risolvi, idiota?», lo rimbrotta Arken: «è proprio quello il primo posto dove andranno a cercarla i soldati».

Ruben si guarda intorno. «Se tagliate per il campo di ravanelli potete arrivare al boschetto...»

«Si, questa può funzionare», annuisce Arken, che poi si volta verso di me. «Da lì puoi raggiungere il bosco dei mirtilli, e a quel punto... a quel punto non ti trovano più».

«Non VI trovano più», precisa Ruben, scendendo dalla carriola. «Devi andare con lei».

Arken lo guarda con aria interrogativa. «Perché?»

«Perché non può andare nel bosco, da sola, di sera, con i soldati in giro: te lo devo spiegare?»

«Vabbè. E invece voi? Che fate?»

«Noi andiamo ad avvisare Saga», continua Ruben, facendo cenno a Last di seguirlo. «Ti ricordo che quelli stanno cercando anche lei». E ci assicuriamo anche che stiano tutti bene, penso con un filo di ansia.

Arken annuisce. «E col ginocchio, come fai?»

«Non dobbiamo scappare», risponde Ruben, scrollando le spalle: «non stanno cercando noi. E poi mi sta già passando». Non si direbbe, a giudicare da come appoggia il peso. Sospiro.

«Ma siete sicuri?» Interviene Last: «e se invece...»

«Stà zitto, idiota», lo interrompe Arken. «Va bene, Rub: ho capito». Quindi si gira nella mia direzione. «Forza, principessa: muoviamoci!»

«Mi raccomando, dì a Saga che la aspettiamo nel bosco», mi affretto a dire a Ruben prima di separarci. Da lì, una volta insieme, potremo raggiungere la casa di Dina, penso tra me e me, cercando di farmi coraggio. Con un pò di fortuna, ce la caveremo anche questa volta. Abbiamo visto e vissuto di peggio.

«Ricevuto», mi risponde Ruben con un cenno di intesa.

«Stai attento, mi raccomando. E se vedi che butta male... raggiungici anche tu».

«Contaci: lo farò».

«Promesso?».

«Promesso».

Freya Thorn

... to be continued



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10 aprile 518
Giovedì 2 Marzo 2023

Giustizia

E così alla fine l'ho fatto.

A me è toccato il compito di dare fiato al tuo progetto, ai tuoi obiettivi, a tutto ciò per cui ti sei spesa in questi lunghi ed estenuanti mesi. Sono riuscita a non vanificare i tuoi sforzi? Vorrei esserne certa. Ma so che era questo che ti aspettavi da me, dal giorno in cui mi hai chiesto di tornare a indossare l'abbraccio dell'angelo. "Mi serve il tuo aiuto". E poi mi hai raccontato il tuo sogno: una prospettiva visionaria che in quel momento, con le truppe di Ghaan intente ad assediarci scagliandoci addosso orde di risvegliati, non aveva alcun senso. In tutta Angvard non c'era anima viva che potesse comprendere quel disegno, neppure tuo fratello... Nessuno che non fosse in grado di scorgere nei tuoi occhi, di avvertire nelle tue parole la fulgida luce di Dytros. Il giorno dopo ero nuovamente al tuo fianco, pronta a seguirti come facevo da bambina: con lo stesso spirito di quando, tenendoci per mano, ci avventuravamo alla ricerca dei misteri sepolti nei meandri sotterranei della Sacra.



Ricordo tutti gli incontri, i consigli di guerra, le discussioni estenuanti avute con i nostri ufficiali, consiglieri e alleati: Alman, Zaaver, Vonner, Acab. Ricordo la tua passione e le loro espressioni scettiche: ai loro occhi sembravi una sprovveduta, un'ingenua, una pazza. Più volte sei stata sul punto di essere esautorata. Eppure non ti sei mai arresa. Hai sempre puntato sugli altri, sulla loro capacità di ascoltare, comprendere e perdonare: amici o nemici che fossero.

Come quel giorno in cui Ymir Braccia d'Orso ti precipitò giù dal burrone: in quell'occasione arrivasti a mettere in gioco la tua stessa vita pur di raggiungerlo, parlare la sua lingua, scuotere i suoi valori. E i tanti che all'epoca si affrettarono a raccontare la tua disfatta vengono oggi smentiti dalla presenza di un suo ambasciatore che attende il tuo risveglio per offrirti un'alleanza.

O come quando, sola in tutta Angvard, prendesti la decisione di rilasciare Mandy Sphere, autrice di un sanguinoso attacco condotto all'interno delle nostre case con l'obiettivo di attentare alla tua stessa vita, in cambio dell'unica persona che poteva indicarci l'accesso alla Sacra. Gran parte degli scettici che all'epoca si scagliarono contro una scelta apparentemente così scriteriata si trovano oggi oltre quella fortezza, all'interno di una città entro le cui mura nessuno era mai riuscito a entrare.

Questa è la giustizia che hai portato tra gli uomini in guerra, accecati da un conflitto che ha separato comunità, parentele, affetti, credenze, amori... e che, in questo giorno sacro, ho provato a raccontare in tua vece. Ma non sono in grado di andare oltre questa rappresentazione: nessuno lo è. Per questo ti chiedo, ti imploro di tornare. E se offrire la mia vita può servire a qualcosa, chiedo solennemente a Dytros, nel giorno a lui consacrato, di prender...

Vesa il Bandito - Immagine

«Chi sei? Come hai fatto a entrare?»

«Non gridare, non chiamare aiuto: se lo fai, qualcuno morirà».

Così dicendo, la figura incappucciata entra nella stanza. Un passo dopo l'altro, lentamente, lasciando dietro di sé una scia di sangue che osservo con orrore. Dev'essere uno degli Innalzati superstiti di Ghaan. Eppure qualcosa nelle sue movenze, nei suoi abiti, riporta alla mia mente il ricordo di un'altra persona. L'Uomo senza Volto, la belva assetata di sangue che spense gli occhi innocenti di Kyr in quell'infausto giorno alla Rocca di Horen: Joad Kempf.

«Chi hai ucciso, assassino?» Esclamo. Penso a Peter, ad Hans e agli altri soldati di guardia a quest'ora: mi si stringe il cuore al pensiero che siano morti. Sento il desiderio di vendetta che mi pervade, mentre cerco con lo sguardo il mio braccio di legno. E lo vedo lì, sulla sedia dove l'ho lasciato pochi istanti fa in preda al dolore, grosso modo equidistante tra me e lui.

«Te l'ho già detto: non sono qui per uccidere nessuno. Anzi, intendo complimentarmi per il discorso che hai fatto».

«Risparmiami il tuo sarcasmo e dimmi cosa vuoi». Mi alzo, ma mi rendo conto che ogni tentativo di raggiungere la protesi prima di lui sarebbe vano: e anche se ci riuscissi, indossarla richiederebbe del tempo. La mano che mi resta raggiunge l'elsa della spada: sia come sia, venderò cara la pelle.

«Ho bisogno che tu ti finga morta per un pò». Si avvicina al mio braccio, lo osserva, lo prende: la vista della sua mano che lo stringe, dei suoi occhi che contemplano la mia incompletezza, è un oltraggio che mi ferisce intimamente. Sguaino la spada.

«Se vuoi vedermi morta, dovrai...»

Non mi lascia neppure terminare la frase. I suoi colpi sono rapidi, precisi, spietati. Eppure, non posso perdere questo scontro: devo fermarlo, o almeno dare l'allarme. La scrivania mi aiuta a tenerlo a bada: sembra sorpreso, forse non si aspettava tanta resistenza da parte di una come me. Aspetto il momento buono, poi rompo la mischia e apro la bocca per urlare...

... Ma il maledetto non aspettava altro. Con una rapidità inumana chiude la distanza che avevo faticosamente costruito tra noi e mi colpisce al ventre con l'elsa della lama, togliendomi il fiato: poi, non contento, afferra la coda dei miei capelli e la strattona verso il basso, spalancandomi la bocca in un disperato bisogno di aria.

E infine soffia, sputandomi in faccia qualcosa che aveva tenuto in bocca fino a quel momento. L'aria intorno a me si riempie di un odore di aceto, agrumi e fiori appassiti.

«Perdona i miei modi, Paladina di Dytros, ma abbiamo poco tempo: è giunto il momento che tu chiuda gli occhi».

Mi sento afferrare dietro la schiena, poi sollevare da terra. Vorrei impedirlo, ma il mio corpo è diventato improvvisamente molto più pesante. Osservo impotente la sostanza vischiosa colarmi sul viso, sulle labbra. Credo che si tratti dello stesso preparato anestetico che abbiamo trovato in uno dei laboratori sotterranei di questo edificio. L'odore è lo stesso, ma non dovrebbe essere così potente. Provo a divincolarmi, ma le mie membra rispondono in ritardo. Dirotto le energie residue in un ultimo, disperato tentativo di gridare, ma il mio aggressore è lesto a tapparmi la bocca con un panno umido imbevuto della stessa sostanza di prima.

«Credimi, così è meglio per tutti: e comunque dicevo davvero, prima: il discorso mi è piaciuto... e non è morto nessuno. Non ancora, almeno». Così dicendo mi toglie la spada e mi lega alla sedia. Poi esce così come era entrato, lasciandomi lì, con la testa china sulla scrivania: cosciente, ma impossibilitata ad aprire gli occhi o a gridare.

Perché lo ha fatto? Che senso ha correre un rischio simile in una città invasa da truppe nemiche se lo scopo è quello di lasciarmi in vita? Pensa, Crystal: rifletti, adesso che è l'unica cosa che puoi fare. Ragiona con la testa di Yara, in questo giorno sacro e cruciale per il futuro del tuo tempio, dei tuoi fratelli e di queste lande martoriate dalla guerra.

Crystal Kanban
scritto da Crystal Kanban , 04:06 | permalink | markup wiki | commenti (0)
 
10 Aprile 518
Domenica 5 Febbraio 2023

Neter



Adesso

La paladina ha finito il suo discorso e si accinge a percorrere la strada che la separa dal Sanatorio. Bohemond la segue come un'ombra e in generale i soldati di Angvard mi sembrano tutti sul chi vive: evidentemente Kailah ha passato le informazioni che le ho fornito a chi di dovere. Bene così. Francamente dubito che qualcuno di loro potrebbe fare granché nel malaugurato caso in cui lei decidesse di entrare in azione, ma se non altro avranno il tempo di suonare il corno, o quantomeno di urlar...

AAAaaagh-

Eccolo: il rantolo di un povero disgraziato colpito a morte in qualche vicolo intorno alla Fortezza. Praticamente impercettibile in questo casino, ma non per me.

Chi hai fatto fuori, stavolta? Mi bastano pochi passi per scoprirlo: una guardia di Angvard. Il suo compagno è ancora vivo. Lo hai lasciato così apposta per farlo urlare, in modo che possa attirare l'attenzione. La porta a cui le tue vittime facevano la guardia conduce alla caserma: non esiste posto più stupido per tentare una sortita. Non è qui che vuoi colpire.

Mi avvicino al soldato superstite, che sta cercando di portarsi alla bocca il corno. Quando mi vede ha un sussulto, come se per un attimo mi avesse scambiata per il suo aggressore. Lo prendo come un complimento.

Mi guardo intorno: nessuna traccia di lei.

«Aiutaci... ti prego...»

Alzo le spalle. «Non sono un medico, ma non hai niente di troppo grave: la buona notizia è che te la caverai». La cattiva è che il suo compagno invece è già stecchito, ma non è il caso che lo sappia adesso. Poi gli sfilo delicatamente il corno dalle mani, scuotendo la testa. «Atteniamoci al programma: la musica parte alle nove e trenta, dopo la cena sociale».

«Ferma... che fai...»

«Ti salvo la vita, genio: ma con discrezione, senza trascinare in questo evidente diversivo decine di soldati che devono invece restare al loro posto.»

Mi avvicino alla porta e suono il batacchio con tutta la forza che ho: poi, per sicurezza, sferro anche due pugni e un calcio. Dovrebbe essere sufficiente. «Ascoltami bene: quando verranno a soccorrerti, dì loro di non suonare il corn...» Troppo tardi: ha già perso i sensi. E pensare che c'è chi si stupisce che quell'inetto di Athos Alman voglia far fare tutto a noi Innalzati.

Torniamo a noi. Dove sei andata? Nel vicolo non ci sono impronte né tracce recenti. Alzo lo sguardo. I palazzi della Contrada della Scure hanno tetti sufficientemente robusti per saltarci sopra, evitando le strade affollate e illuminate a festa. Del resto, siamo state addestrate anche per questo... una vita fa.



Una vita fa

«Coraggio, ragazze: è molto più facile di quello che sembra». La voce di Kzar è tranquilla, rassicurante. Mentre parla tende persino la mano, come a voler comunicare che, nel malaugurato caso in cui le esaminande dovessero cadere, penserà lui ad afferrarle. Manuel e Sir Wilson osservano la scena dal basso, senza dire una parola.

«A sentire te sembra tutto facile», gli dico a bassa voce. Ci troviamo sul tetto del secondo edificio più alto della città: cadere da questa altezza forse non equivale a morte certa per un Innalzato, ma quasi.

«Beh, noi ce l'abbiamo fatta senza problemi: ce la faranno anche loro».

«Chi lo sa». E' in questi momenti che comprendo quanto Kzar sia migliore di me... Non soltanto come Innalzato, ma anche dal punto di vista umano. Per lui quelle due sono potenziali compagne, per me sono più che altro delle possibili rivali. Lui fa il tifo per loro, io no... o comunque, non me ne frega niente. Del resto, l'esame di oggi è anche una sfida tra il gruppo di Manuel e le nuove leve di Sir Wilson. Noi siamo i bambini prodigio, quelli che riescono a spostarsi di tetto in tetto in armatura senza problemi: loro... Beh, tra poco vedremo.

La prima a saltare è Felda. La meno dotata, almeno secondo me, ma anche la più disciplinata. In prove come questa la virtù più importante non è la forza del sangue o dei muscoli, ma la consapevolezza dei propri limiti. Anche perché, come dice Manuel, la prima crescerà, col tempo e l'esercizio: la seconda, no.

Lo slancio di Felda è buono, ma la distanza percorsa in aria è a malapena sufficiente per raggiungere il tetto dove ci troviamo. I piedi atterrano pericolosamente vicini al cornicione, a pochi centimetri dal vuoto: se al posto nostro ci fossero dei nemici, basterebbe un calcio sferrato al momento giusto per vanificare il tentativo e precipitarla giù. Noi abbiamo saltato molto meglio di così. Ma Kzar alza il pugno in segno di esultanza; sir Wilson annuisce, visibilmente soddisfatto; Manuel applaude, addirittura. L'elogio della sufficienza. Rabbrividisco al pensiero del giorno in cui Felda dovrà coprirmi le spalle in battaglia, ma in fondo ha ragione Kzar: devo imparare ad essere più fiduciosa, per cominciare va bene anche così.

E' il momento di Cyanide... O Nox, come preferisce farsi chiamare. Effettivamente con un nome così orrendo mi sarei trovata un'alternativa anch'io. Manuel ci ha raccontato che sua madre è stata stuprata da un pirata di Norsyd durante un saccheggio e che poi è morta subito dopo averla messa al mondo: quello scherzo di nome le è stato dato dagli zii, gli stessi che poi l'hanno venduta a Sir Wilson per quattro spicci. Dicono che il suo sangue sia migliore di quello di Felda, ma che la capacità di controllo lasci ancora un pò a desiderare.



Nox si getta in avanti con uno scatto rapidissimo, disegnando un arco molto più stretto di quello di Felda... troppo stretto. Il piede colpisce a grande velocità il delicato innesto che divide il cornicione e la gronda, frantumando entrambi. Le sue ginocchia ruotano verso il basso, colpendo violentemente la prima fila di tegole poste alla base del tetto. L'impatto restituisce tutta la spinta del salto all'indietro, scaraventando la poveretta verso il basso. Esame fallito, direi così ad occhio.

Istintivamente, non capisco neppure io perché, mi getto verso di lei: non riesco ad afferrarla per un soffio. Quindi, spinta più dall'istinto che dalla ragione, decido di seguirla, precipitandomi nel vuoto. Non so cosa mi prende: che il buon cuore di Kzar mi abbia contagiata a tal punto? Forse la storia della sua infanzia mi ha fatto più pena di quello che pensavo: o magari, più semplicemente, mi va di fare bella figura con Manuel e Sir Wilson, agguantandola con un gesto atletico prima che la sua testa si sfracelli sul selciato a pochi passi da loro.

Il problema è che si tratta di un tentativo stupido, non appena mi trovo in aria capisco che non ce la farò mai. Riesco a raggiungerla, la mia mano la sfiora, ma non ho modo di agguantarla né di arrestare la nostra caduta. A saltare me la cavo bene, ma per compiere questo salvataggio serviva avere un paio di ali. Non posso fare altro che osservare Nox precipitare insieme a me, con l'amara consapevolezza che a breve toccheremo terra entrambe: lei di testa, io di schiena. Lei morirà sul colpo, io potrei cavarmela con qualche osso rotto... Forse.

Poi, un attimo prima che le punte dei suoi capelli bianchi tocchino terra, Nox mi mette un piede in pancia, si dà una vigorosa spinta ed effettua una giravolta in aria che le consente di atterrare in piedi: da lì si produce in un'altra capriola, scaricando a terra gran parte della forza d'impatto, per poi rimettersi in piedi con un unico movimento elegante e aggraziato. Una manovra da manuale.

Immediatamente dopo sono io a toccare terra, schiantandomi di schiena su un carretto di paglia a dir poco provvidenziale. Quando si dice la fortuna...

Per qualche istante vedo tutto nero: capisco di essere ancora viva quando sento gli applausi divertiti di Sir Wilson. Apro gli occhi e vedo una mano: l'afferro, pensando che sia quella di Manuel, e mi rialzo a fatica, poi mi accorgo che è quella di Nox.

Nox - Immagine 3

«Sei viva», mormora con voce fredda. Non è una domanda, ma una constatazione. Sembra quasi delusa. La guardo: non sembra molto amichevole, eppure se è riuscita a fare quel numero da circo è anche merito dei miei addominali. La sua mano stringe con forza la mia, come se volesse frantumarla. I suoi occhi biancastri mi scrutano con aria di sfida, come a dirmi "pensavi che sarei stata io a schiantarmi, e invece..."

Alzo le spalle, sottraendo con uno strattone la mia mano alla sua morsa non appena riesco a rimettermi in piedi: nell'istante in cui lo faccio, sento una fitta lancinante trafiggermi il fianco. Le pallide orbite di Nox mi scrutano il ventre con morbosa curiosità. Seguo il suo sguardo e mi accorgo che ho una grossa scheggia di legno che mi spunta dalle viscere.

«Fa male, vero?» Non rispondo. Altroché, se fa male: chissà chi ha messo in giro la leggenda che gli Innalzati non sentono il dolore. Lo sopportiamo ma lo sentiamo, eccome se lo sentiamo. Piuttosto, perché questa scema continua a guardarmi con malcelata delusione per il fatto che ancora respiro? Ha capito che sono saltata giù per aiutarla, o...

La sua mano raggiunge la punta della scheggia. «Puoi gridare, se vuoi...» mi dice, guardandomi negli occhi con aria fredda e inespressiva. Le sue dita si serranno sul legno, imbrattandosi del mio sangue. Poi, lentamente, comincia a spingere. Ma cosa cazz...

Adesso basta. La spingo via con forza, sopportando ben volentieri un'altro spasmo di dolore pur di mettere un pò di distanza tra me e questa stronza sadica. «Ma tutto a posto?» Esclamo, visibilmente infastidita. Lei mi guarda impassibile, senza tradire alcuna emozione. Che razza di...

«Tutto a posto, Ayza?» Manuel e Sir Wilson ci raggiungono, interrompendo la nostra conversazione. «State bene, ragazze?» Fa eco Kzar dal tetto sopra di noi. Lei mi guarda, portandosi un dito alle labbra in segno di silenzio. Riesco a sentire il mio sangue, su quel dito. Avevo ragione: vuole sfidarmi.

Stà tranquilla: non sarà adesso che ti farò fare la figura di merda che meriti. Nel frattempo, impara a saltare.



Adesso

Sono passati diversi minuti dal diversivo e ancora non è successo niente. Qual è il tuo obiettivo, Nox? Madre Magdalene è protetta da un soldato esperto e la sua fede le consente di mascherare il suo odore, quindi non puoi trovarla facilmente. Lady Yara non è verosimile, troppi soldati e porte di ferro tra te e lei. Quanto a Crystal... lei è un bersaglio facile, il Sanatorio a quest'ora è sicuramente a corto di soldati: mi conviene andare lì.

La Strada dei Ponti, che collega la piazza della Fortezza al Sanatorio, è gremita di tavolate e gente che attende di essere servita. I bambini, non paghi delle pignatte che hanno spaccato per tutto il pomeriggio, giocano e corrono da tutte le parti. Con questo casino di suoni e odori capire chi c'è e cosa succede dentro al Sanatorio è impossibile anche per me: non mi resta che dare un'occhiata di persona. Fortunatamente non hanno ancora riparato il rosone. Mentre atterro dentro alla sala di meditazione ripenso a quando Kzar ed io lo abbiamo rotto, meno di due mesi fa, poche ore prima che lui incontrasse il suo destino. Peccato che non ci sia lui al posto mio, ora... Saprebbe cosa fare. Soprattutto, saprebbe come comportarsi con Annie, cosa che io...

All'improvviso mi assale un terribile sospetto: Annie, la Pristina della Mantide. E se fosse lei, l'obiettivo di Nox? Annuso l'aria, cercando di concentrarmi, mentre corro verso le scale che portano ai piani inferiori. Sento l'odore di Crystal e quello di Bohemond: stanno parlando. Intorno a loro, nelle altre stanze, avverto la presenza di altre persone, probabilmente malati e soldati. Non sembra esserci alcun problema, almeno per ora, a parte il tanfo pestilenziale della Carminia. Che faccio? Resto qui o faccio un salto a vedere come sta Annie? Lei e Colin sono venuti a sentire l'ultima parte del discorso di Crystal, Nox potrebbe averli visti e seguiti fino alla casa dell'erborista. Con loro ci sono soltanto una vecchia e un soldato anziano, se li attacca non ce la faranno mai.

Risalgo in fretta le scale fino alla sala di Meditazione, quindi mi arrampico sullo scheletro del rosone fino a raggiungere il tetto. La casa dell'erborista è a sud-ovest da qui, ma gli echi delle tavolate mi impediscono di...

... E poi la vedo, in piedi sul tetto della casa a nord del Sanatorio: lo stesso da cui spiccò quel salto, una vita fa.

Non dice una parola, ma non è necessario: mi è sufficiente osservare il bianco dei suoi occhi, freddo e inespressivo, per capire come stanno le cose. Il suo obiettivo non è Madre Magdalene, Lady Yara, Crystal, e neppure Annie. Il suo obiettivo, stanotte, sono io.



Una vita fa

«Siete ancora in tempo per ripensarci».

La voce di Kzar tradisce una certa preoccupazione. Il suo è un tentativo velleitario, ma come sempre ha ragione: se sarò sconfitta, lui perderà una valida compagna d'armi... e forse, perché no, una buona amica; ma anche se vincessi, Manuel non sarà affatto contento... e Sir Wilson andrà su tutte le furie.

Comunque andrà, saremo tutti puniti duramente: una tra me e Nox con la morte, l'altra per aver commesso il fatto, e tutti gli altri per non avercelo impedito. Eppure, non è certo il primo regolamento di conti tra Innalzati a cui assistiamo da quando siamo qui: l'unica differenza è che stavolta il livello è davvero molto simile, quindi il rischio di farsi male, davvero male, è concreto... Specie considerando che lei non vede l'ora di togliermi di mezzo.

Nox - Immagine 2



I nostri compagni si dispongono ai lati dello spiazzo dove ci troviamo, in attesa che lo scontro abbia inizio.

«Sei pronta, Ayza?» mi chiede Vesa: a lui spetterà il compito di interrompere lo scontro se Nox non sarà in grado di dichiararsi sconfitta. Il mio padrino, ovviamente, sarà Kzar.

«Si», esclamo: «sono pronta». Kzar rivolge la stessa domanda a Nox, che si limita ad annuire e a sollevare la sua imponente lama nera verso il cielo.

Un istante dopo mi è addosso. E' drammaticamente più veloce dell'ultima volta che l'ho vista combattere, ma il problema vero è il peso della sua arma rispetto alle mie. I suoi colpi mi schiacciano a terra, togliendomi il tempo di reagire come vorrei.

Il principale punto debole di un'arma a due mani è il cambio di ritmo, in quanto chi la brandisce ha bisogno di mantenere una certa regolarità tra offesa e difesa; ma la tecnica con cui Nox manovra la sua lama si basa su un presupposto diverso, che soltanto un essere con la forza di un Innalzato può mettere in pratica. Le sue mani ruotano in continuazione intorno all'elsa, facendo mulinare la lama come un vortice che non si ferma mai: l'unico modo per colpirla è penetrare all'interno di quel vortice, rischiando di essere fatta a pezzi...

... Oppure colpirla a distanza, che è proprio ciò che intendo fare non appena sarò riuscita a mettere un pò di spanne tra me e lei. Metto dentro una serie di finte quindi salto all'indietro, evitando i suoi affondi e uscendo dalla portata della sua lama. Continuo a saltare una, due, tre volte, quindi mi piego sulle ginocchia e scaglio con forza le mie due spade verso di lei: quella di destra al ventre, quella di sinistra al torace, così da chiuderle ogni velleità di schivata. Se vuole sopravvivere dovrà bloccarle entrambe con un colpo estremamente preciso della sua lama, altrimenti sarà lei ad essere tagliata in due.

Le mie lame impattano all'unisono il vortice nero che la circonda: una delle due le lambisce appena il fianco, l'altra rimbalza a terra a poca distanza da lei, tra le grida entusiastiche degli Innalzati che osservano lo scontro. Non credo ai miei occhi: è riuscita a deviarle entrambe. Come diavolo ha fatto a diventare così forte? Adesso sono io ad essere nei guai.

Mi sento addosso lo sguardo di Kzar. So cosa sta pensando: sono disarmata, arrendermi ora non sarebbe troppo disonorevole. Scuoto la testa. Per lui, forse: per me non è un'opzione.



Adesso

«Vuoi la rivincita, eh? D'accordo: la avrai». E' venuta preparata, come e più dell'altra volta: posso sentire il profumo della Garmonbozia che la pervade dalla testa ai piedi. Si prepara a spiccare il volo per raggiungermi, elegante e bellissima come sempre: lo stesso luogo, lo stesso salto di una vita fa. Va bene, stronza: vediamo se hai imparato a non romperti i piedi sul cornicione.

Ci lanciamo nel vuoto insieme, librandoci in aria come due predatori notturni. Combattere in aria quando non sai volare è la cosa più difficile da imparare in assoluto: e io e lei, dopo Kzar, eravamo le migliori.



Il mio tetto è più alto, cosa che mi fa pensare di avere un minimo di vantaggio. Grosso errore: la portata della sua lama mi prende in contropiede, costringendomi a difendermi e a perdere stabilità.

E poi arriva il peso, sotto forma di pressione fortissima sulle mie spade. La sua arma mi sale addosso come una ruota, colpendomi una, due, tre volte grazie al vortice scaturito dall'innaturale rotazione impressa dalle sue mani. Quelle dannate braccia le sono ricresciute meglio di prima. Riesco a deflettere il primo colpo, al secondo ci pensa l'armatura, il terzo mi penetra tra il fianco e il dorso. Sento il suono del corpetto che si squarcia come fosse carta, quindi il freddo mortale di quel ferro nero che mi scava dentro la schiena. L'impatto mi scaglia verso il basso, proiettandomi giù, nel vuoto. Rivivo la caduta di una vita fa, ma stavolta Nox non si trova sotto di me in procinto di schiantarsi ma sopra, in alto, con i piedi ben saldi sul tetto del Sanatorio. Questa volta è mio il corpo che precipita verso il selciato, sono io ad aver fallito l'esame.



Una vita fa

Si mette male. Ho recuperato le mie spade, ma per farlo ho dovuto incassare due o tre colpi che non promettono nulla di buono. Non so se oggi questa sadica è in stato di grazia o sono io ad essere particolarmente lenta, ma non riesco a mettere a segno un colpo che sia uno.

Guardo in direzione di Kzar: lo so cosa stai pensando, amico mio. Forse dovrei davvero arrendermi, se non fosse che non ho alcuna intenzione di farlo. Piuttosto la morte, la sofferenza, l'inferno di ghiaccio, le fiamme eterne, le tempeste di acido di Aghvan: ma la resa, mai.

Ayza Reich - Immagine 3

Poi, appena dietro Kzar, i miei occhi mettono a fuoco qualcosa di impossibile. Una cascata di capelli biondi che circondano un viso angelico, due occhi dello stesso colore del cielo che mi guardano carichi di affetto, comprensione e speranza: una bambina... no, è una ragazza ormai. Ireena? Riesco a scorgerla solo per un attimo, poi la visione viene interrotta dalla sagoma di Nox che si staglia di fronte a me, elegante e spaventosa, in procinto di darmi il colpo di grazia.

«Fa male, vero?»

Ancora quella domanda: quanti mesi sono passati da quel giorno? Abbastanza per trasformare una ragazzina sadica in una guerriera spietata... ma non per renderla più forte di me. Non ancora. All'epoca non le risposi, adesso ho tutta l'intenzione di farlo.

«Altroché, se fa male. Ma stavolta non ci sono Manuel e Sir Wilson a cui rendere conto: siamo solo tu, io e i nostri compagni, di fronte ai quali stai per fare la figura che meriti.»

Chiudo gli occhi, concentrandomi sull'immagine di Ireena. Il sangue degli Antecessori ribolle dentro le mie vene: tutte le energie che mi restano si concentrano nei muscoli delle gambe, mentre mi preparo a sferrare un ultimo, micidiale colpo.



Adesso

Ironia della sorte, anche questa volta lo schianto della mia caduta viene attutito da un carretto di paglia a dir poco provvidenziale. Chissà se il proprietario è lo stesso: dovrei riempirlo di soldi, è la seconda volta che mi salva la vita.

L'impatto è comunque devastante. Sento schegge da tutte le parti, proprio come quel giorno di una vita fa. Stavolta però Nox non mi porgerà una mano per farmi rialzare, ma la maledetta lama nera con cui intende farmi fuori. Chissà se mi toccherà sentire ancora quell'odiosa domanda: sarebbe la terza volta. Certo, la risposta che le diedi l'ultima volta dovrebbe esserle rimasta particolarmente impressa: pensava di avermi in pugno, e invece rimase senza fiato... e senza braccia.

Io stessa non riuscii a capire cosa mi successe, come fui in grado di compiere quello scatto fulmineo che la lasciò immobile sul posto, sconfitta e mutilata. In seguito Manuel mi avrebbe spiegato che alcuni Innalzati, quando vengono messi di fronte a situazioni di vita o di morte, possono sviluppare una facoltà innata. Quel giorno, in quel preciso istante, io sviluppai la mia. Quando Manuel comprese la sua versatilità decise di chiamarla neter, dal nome di una sostanza alchemica che si trova nei sotterranei dell'Avamposto e in diverse altre zone di Ghaan. Una polvere biancastra che può essere utilizzata in vari modi: come detergente, come fertilizzante... o come esplosivo.

«Cosa è stato?»

«Sembrava uno schianto!»

«Siamo sotto attacco? Chiamate qualcuno, presto!»

Le strade sono affollate e illuminate: la gente passeggia e mangia per strada, in attesa che inizi la musica e si aprano le danze. E' piuttosto normale che ci abbiano notate: il punto è capire se è un bene o un male.

Due bambini mi si avvicinano, osservandomi alla luce della torcia che arde a poca distanza da noi. Male, direi: molto male.

«Sei ferita, signora? Guarda, Ron... è ferita!» Seguo i suoi occhi e mi accorgo della grossa scheggia di legno che mi spunta dalle viscere, proprio come una vita fa. Mi viene da ridere: ci mancava anche questa. Ti prego, bambina, non chiedermi se fa male.

«Ma cosa dici, Yanna! non è sangue vero, quello... E poi, non vedi che sta sorridendo? E' una recita... stanno recitando!».

Yanna guarda Ron con espressione interrogativa, quindi sposta nuovamente lo sguardo su di me: «Davvero state recitando?» Poi entrambi sollevano gli occhi sopra di noi, fino a raggiungere la sagoma nera di Nox che si staglia sul tetto del Sanatorio contro il cielo stellato, in attesa che quella conversazione finisca per scendere a darmi il colpo di grazia... Sempre che gliene freghi qualcosa di risparmiare questi due marmocchi. Nel dubbio, meglio non rischiare.

Annuisco a Yanna. «Si, certo», le dico dandomi una pacca sulla ferita. «E' tutto finto, non vedi? Io e la mia amica lassù stiamo preparando un numero... Se andate verso il palco, tra poco lo vedrete. Avanti... andate, adesso!».

Yanna tira un sospiro, visibilmente sollevata. «Possiamo vedervi mentre vi allenate?» chiede Ron.

Scuoto la testa. «Assolutamente no! Vi rovinereste lo spettacolo...» E, cosa ancor più grave, rischiereste di crepare. «Forza, correte al palco: ci vediamo lì!». Caro Dytros, se non vuoi che la tua prima festa qui a Ghaan resti impressa nelle lapidi di questi due mocciosi, aiutami a farli smammare.

I ragazzini cominciano a correre. Poi a un tratto Yanna si ferma e si volta verso di me, proprio sotto alla torcia che illumina l'angolo della strada. la sua chioma di capelli biondi si apre a incorniciarle il viso, mentre mi guarda con due occhi dello stesso colore del cielo.

«Chi è più forte, signora? Tu, o la tipa sul tetto?»

Incomincio lentamente ad alzarmi, sfilandomi di dosso le schegge più fastidiose: venti metri sopra la mia testa Cyanide Noctis solleva la sua lama verso il cielo stellato, preparandosi a saltare giù per finire il lavoro. Pare proprio che questa festa non sarà così pallosa, dopo tutto.

«Io, Yanna: sono più forte io.»

Ayza Reich - Immagine
scritto da Ayza Reich , 16:35 | permalink | markup wiki | commenti (0)
 
9 Aprile 518
Venerdì 6 Gennaio 2023

E' stato bello finché è durato



Dodicimilaquattrocentoquindici, dodicimilaquattrocentosedici, dodicimilaquattrocentodiciassette...

E così alla fine è successo. Era inevitabile? Si. Però non mi sarebbe spiaciuto se fosse durata un pò di più. Magari fino alla festa che stanno organizzando i suoi compagni, che sono certa sarà molto pallosa.

Ho sempre avuto un rapporto strano con le feste. Quando ero piccola non mi facevano scendere in strada per paura che mi prendessi chissà che malattia, la quale mi avrebbe di certo uccisa visto come erano messi i miei polmoni. A volte partecipavo dalla finestra, con il migliore vestito che avevo, scrutando quel mondo festoso e distante dai vetri della mia camera; altre volte mi disinteressavo e andavo a dormire presto, fingendo di preferire la solitudine e il silenzio a quegli eventi mondani e rumorosi; e poi c'erano i giorni in cui stavo semplicemente troppo male per alzarmi, e allora mi veniva da odiare ferocemente tutti quei ruffiani e quelle cortigiane imbellettate che ballavano e si divertivano mentre io a stento riuscivo a respirare.

La mia famiglia non era povera, ma le cure al Nosocomio costavano troppo. Se sono viva è solo grazie a zia Masha e ai medicamenti che vendeva sotto costo a mio padre, togliendo il pane di bocca alle sue figlie e sfidando le ire dell'arcigno marito. Fino a quando la malattia arrivò a un punto tale che neanche i decotti di zia Masha riuscivano più a liberarmi i polmoni... e allora non restò che accettare l'offerta che il Camerlengo faceva a tutti i malati più o meno terminali: offrirsi volontari per un farmaco segreto che alcuni ricercatori stavano sperimentando altrove. Il prezzo da pagare era soltanto uno: rinunciare al proprio nome e alla propria famiglia, per sempre.

Fu così che me ne andai... letteralmente. Venni dichiarata morta a 17 anni, con tanto di esequie. Al cimitero di Trost c'è persino una piccola lapide a mio nome. Nei mesi successivi conobbi Messer Kurr, che a sua volta mi introdusse a Sir Wilson: fu proprio lui a dirmi che avrei dovuto affrontare un lungo viaggio, il più lungo della mia vita... ma che ne sarebbe valsa la pena. Aveva ragione? Non lo so. Mi verrebbe da dire di si, visto che poi alla fine non sono più morta. Poi però, quando mi trovo al cospetto di quelli che sono vivi davvero, mi chiedo se posso ancora definirmi tale.

Non è da me deprimermi in questo modo. La verità è che mi manca Ireena, in questo momento avrei davvero bisogno di lei. Ma dopo quello che ho fatto non posso più rischiare di metterla in pericolo.. e così non mi resti che tu, putrida marmellata di carne morta arancione dal nome impronunciabile. Io e te, ancora una volta avvinte in una spirale di agonia ed estasi, finché morte (quella vera) non ci separi. Ti vedo, mentre mi osservi dall'angolo buio in cui ti ho nascosta, ansiosa di entrarmi dentro e soddisfare la bestia che vive dentro di me. Ma so anche quanto puoi essere pericolosa per chi non ti conosce e non riesce ad assumerti a piccole dosi.

Chissà cosa sarebbe successo se quell'indiota di un soldato Greyhavenese ti avesse scagliata addosso a me: magari saresti riuscita a fottermi di brutto di nuovo, o magari no. Chi se ne frega, mi viene da dire, visto che ormai non penso di averne ancora per molto. E invece sei finita in faccia ad Annie, la quale invece qualche compagno e aspettativa di vita ce l'ha ancora. E quindi no, vederla leccare le fughe del pavimento di quella recondita stanzetta nei sotterranei del Sanatorio nella speranza di raccogliere qualche scolatura di te non mi sta bene. Perché Annie è sotto la mia protezione. Ho fatto una promessa e intendo mantenerla, quindi toglitela proprio dalla testa.

Purtroppo però io non sono Ireena, Manuel, Dharkan, o chiunque altro possa fornirle un valido supporto. Mi ha tollerata solo per una manciata di giorni, fin quando ho continuato a centellinarti per ridurre il trauma del distacco. E durante quel periodo è stata eccezionale, accontentandosi di quel poco che le davo senza mai fare storie. Io al posto suo probabilmente l'avrei ammazzata, come ho cercato di fare con Manuel: lo amavo, eppure sono stata più volte sul punto di frantumagli la testa a cazzotti pur di avere un pò più di te. Alla fine ha dovuto rinchiudermi per giorni... per il mio bene, certo, ma anche per il suo.

Annie è diversa: è ''speciale''. Sia Manuel che Kzar me lo dissero più volte, ma io mi rifiutavo di dar loro retta. Forse ero gelosa, magari volevo essere io quella ''speciale''. E invece avevano ragione loro. Lei è una ''pristina'', non è nata da una fiala inoculata da uno scienziato pazzo ma dall'unione fisica tra una donna e un demone. La differenza tra lei e me è la stessa che intercorre tra lo sperma e il piscio. Cosa pensavo di fare? Diventare amiche? Prendere il posto della sua adorata Ali? Ovvio che no. Un serbatoio di droga, questo sono stata, uno spirito neanche troppo affine con cui confrontarsi e scontrarsi fino all'arrivo dei suoi veri compagni. Saranno loro a fornirle il supporto che io non posso darle.

In ogni caso, il fantasma di Ali non ha nulla da temere: non ho intenzione di venir meno alla parola data. Farò in modo di tenere Annie in vita, anche se non passeremo più le notti insieme a parlare finché non ci viene sonno (ovvero mai) o a scrutare l'orizzonte in cerca di meraviglie che possiamo vedere soltanto noi. Il problema è che per farlo mi servi tu, dannata merda arancione, perché le bestie con cui presto o tardi ci dovremo misurare non hanno mai smesso di prenderti e io senza il tuo aiuto non li reggerò mai.

Laèl, il Re Muto; Temu, il Mordighiaccio; Vesa, il Bandito; Jarva, il Nordro; Sami, l'Orbo; Nox, la Dama Bianca. Ognuno di noi aveva un soprannome assegnatogli personalmente da Sir Wilson. Io, modestamente, sono (anzi, ero) la Dama Sterminatrice. Persino Annie ne ha uno: la Pristina della Mantide. A sentirlo incute un gran timore, peccato che non sia ancora in grado di onorarlo sul campo. E dire che stavamo facendo grandi progressi: poi sei arrivata tu e hai dovuto rovinare tutto... come al solito.

"Ayza, ma tu invece la prendi la Garmonbozia?" Ma vaffanculo, stupido maschio giudicante: cosa diavolo ne vuoi sapere tu, pensa a scolarti il tuo liquorino afrodisiaco e non rompere i coglioni.

Va beh, inutile rimuginarci: tanto vale tornare a contare le pecore. Dov'è che ero rimasta?

Dodicimilaquattrocentodiciotto, dodicimilaquattrocentodiciannove, dodicimilaquattrocentoventi...

Ayza Reich - Immagine


scritto da Ayza Reich , 02:43 | permalink | markup wiki | commenti (0)
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